Da una vera e propria vita

La via dell’amore

Ho sperimentato il calmo e felice calore dell’amore dapprima nella mia primissima infanzia, da mia madre Elisabeth, non solo perché era la «mamma», ma perché sempre amorevole, mai di mal umore, un meraviglioso senso di armonia e si­cu­rez­za, senza alcuna dominante costrizione. È così, il mio mes­sag­gio del Divino, poté mettere radici.

Inoltre, mio ​​padre era un uomo completamente liberale la cui fede positiva, sebbene ecclesiastica, non mi ha mai voluto forzare. A 5 anni, ho sorpreso i miei genitori dando loro lettura di un romanzo, dopo aver aveva imparato a leggere con «Max und Moritz» di Busch. All’età di 8 anni ho avuto in casa un’in­seg­nante privata, Marie Klein, con la quale sono stato amico. E anche, dal mio decimo anno, con Henriette Diesfeld, ancora in relazione nei suoi ultimi anni quando nel 1939 dall’Estonia mi inviò i miei primissimi disegni infantili, salvata e al sicuro con altri Baltico-tedeschi in una casa di riposo al dintorno di Poz­nan, dove morì da anziana.

Ma a scuola, in Reval, benché fossi aperto a simpatie an­che istintive e cordialità, nessun rapporto o amicizia, benché avessi saputo quanto fossi carino. Ho sofferto molto dalla se­pa­ra­zione dalla natura cordiale casalinga, arrivato a scuola in una città lontana; mancava anche la saggia nonna paterna, ai ra­gaz­zi la sua comprensione; è morta quando avevo quindici anni, e di lei rimane ancora lì, il suo primo piccolo ritratto che avevo dipinto.

La prima esperienza erotica, viva nel solito senso, è venuta alla coscienza quando avevo 16-17 anni. Alla tenuta del bianco castello di Lechts, dall’allora Agnes di 11–12 anni, la figlia del Barone von Hoyningen-Huene. Sua sorella adottiva, aveva la mia età, e io ne avevo 8 o 9, mi ha chiesto un bacio, ma non ha trovato una mia corrispondenza in quanto non la gradivo. La madre di Agnes, la baronessa, in seguito, ne scherzò ri­cor­dan­do che «il ragazzino dagli occhi sognanti» rifiutò – ma ora amasse sua figlia «Agi». Questo amore per Agi non era tem­po­ra­neo, al contrario, crebbe. Entrambi i genitori erano ben dis­pos­ti, la madre perché le piaceva il «poeta», nel candido cas­tel­lo – nello «sperduto», come ho scritto più tardi in un poema – spesso presentavo poesie. E per quanto riguarda il barone, così me l’ha detto Agi quando lei aveva 14 anni e io 19: «Sapete, a mio padre piacciono i bei giovani.» Abbiamo spesso chiac­chie­rato di cose di ogni genere nel romantico giardino – ma per una diretta dichiarazione, non ne fu verso, benché fossi ap­pas­sio­nato di lei. Sapevo che abbisognava di una buona posizione e dovevo anche essere degno per la baronessa viziata. E ciò era ancora ben lontano! Lei stessa, 40 anni dopo, in una lettera mi ha confessato che mi ammirava, ma a quei tempi era im­pos­si­bile per una ragazza del suo rango di farlo capire. Durante le vacanze eravamo spesso assieme.

La russificazione delle scuole dell’Estonia del 1891, quan­do avevo 19 anni, mi ha costretto a trasferirmi a San Pietro­burgo, dove c’era il ginnasio di Sant’Anna con lezioni pre­va­len­te­mente in lingua tedesca. Ho perso di nuovo tempo, come avvenne durante l’infanzia quale conseguenza della mia salute per lo meno malandata, altrimenti tutto l’intellettuale mi era facile (salvo la matematica) anche ben oltre l’esame di ma­tu­ri­tà. Ma nel 1883 entrai in relazione con la famiglia del defunto Consigliere di Stato Carl von Mayer, il cui più giovane erede, il figlio minore Eduard sarebbe diventato il mio sodale nella vita. L’estate, rimanevano vicino al confine della Finlandia, Levas­hevo, dove ci siamo conosciuti, nell’ambito di una festa serale nel parco della casa, e numerosi ospiti vi passarono la notte, come pure anch’io.

Ma non era una relazione d’amore, come alcune persone erroneamente suppongono perché ero ancora legato ad Agnes e anche Eduard von Mayer lo era per una giovane ragazza bal­ti­ca, Elisabeth Freiin von Stackelberg, che aveva conosciuto, lui tredicenne, d’estate in Estonia e da allora, senza vederla di nuovo, l’aveva amata; ciò lo rese fragile nei confronti di altri affetti. Abbiamo parlato di questi amori reciproci, ma quello che è poi diventato il nostro legame emotivo, erano gli interessi spirituali che ci avrebbero uniti per la vita. Nell’agosto del 1941, eravamo in grado di evocare il cinquantesimo an­ni­ver­sa­rio del nostro primo contatto – probabilmente un caso molto raro di tale e così fruttuosa amicizia.

Durante le vacanze, sono tornato a casa a Jootma e a Lechts. Nel 1893. stavo facendo la maturità, è deceduta la mia amatissima mamma, dopo mille sofferenze. La mia buona so­rel­la mi si avvicinò pertanto di parecchio.

I miei studi all’Università russa di San Pietroburgo, prima per l’arabo, ma presto la giurisprudenza, li abbandonai, no­nos­tante un ottimo primo esame, allorquando il mio amico Eduard e la sua famiglia si trasferirono all’estero, dapprima sul Lago di Ginevra.

Sono stato esonerato dal servizio di leva dell’esercito ed ho visitato, nell’estate del 1894, mio nipote ​​Arthur von Kupffer nel suo soggiorno estivo presso Reval, a Kosch; ho alloggiato pres­so mia zia, la generalessa Olga von Kupffer, dove vi erano i due nipotini per l’estate. La mia bella cugina Anna v. K., all’età di 18 anni convolerà a nozze con l’Ulano mastro cavaliere Wal­de­mar Edlen von Rennen­kampff, un fratello del poi diventato famoso, nella prima guerra mondiale, Generale von Rennen­kampff. Alice e Waldy si chiamavano questi bambini. Mia cu­gi­na Anna aveva 11 anni più di me, suo figlio Waldy aveva 9 anni meno di me, allora lui di 13. Allora è successo qualcosa che mi ha profondamente impressionato. Avevo sempre sperato in un mio chiarimento per l’amore che nutrivo per Agnes, che es­pres­si in una poesia in cui il giovane eroe vien svegliato da un bacio della ragazza e ne è felice.

Una mattina – stavo ancora dormendo nonostante la bella mattina d’estate – sono stato all’improvviso svegliato da un bacio e lì stava il carinissimo Waldy che rideva.

«Mi hai svegliato come animato Eros …», ho scritto 10 an­ni dopo, quando lui era giovane luogotenente dell’esercito dello Zar in Manciuria, durante la campagna russo-giapponese. Il mio piccolo parente mi era stuzzicante; su una collina vicino al mare abbiamo chiacchierato e ci siamo rincuorati. Questa è stata una cosa significativa.

Ne ho parlato con entusiasmo al castello di Lechts, così che la baronessa disse ridendo: «Siete molto innamorato di vostro nipote-cugino». Ma l’amore per Agi non ne fu da meno.

Ora, ho dovuto andare all’estero per gli studi. Ho scelto Monaco per conoscere il mondo cattolico, per la cui storia ave­vo un vivo interesse. Ma poi a Monaco fui un solitario, mentre Eduard studiava a Losanna.

Mi sentii presto molto solo e a disagio nell’ambiente da birrerie di questa città. Eroticamente nulla mi legava, e quan­do, in una notte di carnevale, qualcuno mi chiese se mi po­tes­se dare un bacio, mi lasciò freddo. Ho avuto alcune es­pe­rien­ze pesanti: il mio amico Eduard a Losanna era stato vicino al suicidio quando il suo amore d’infanzia si fidanzò con un altro. Ha composto in poesia:

 

Voglio morire nella notte di primavera –

Quando la luce e la vita intorno a me si risvegliano …

 

L’autunno seguente, nel 1895, con Eduard, ci trasferimmo in­sie­me a Berlino per continuare i nostri studi, lì assieme all’u­ni­versità. Il Natale sul 1895/96 fu profondamente triste per me; Eduard visitò la sorella «inglese» e suo marito in Svezia, dov’e­ra come Pastore della colonia inglese a Göteborg. Passo oltre alle altre esperienze, per rimanere all’essenziale del mio rac­conto.

Un colpo pesante mi investì improvvisamente a marzo del 1896, allorquando mio padre morì; ne ho avuto notizia per tele­gram­ma e, allo stesso tempo, una lettera del padre, nella tarda serata al castello Bethusy vicino a Losanna, dov’ero stato invitato assieme con Eduard, da sua madre, per le vacanze di Pasqua. Ancora la notte stessa, concitata partenza verso nord, via Berlino, fino a noi, ed Eduard mi ha accompagnato al fu­ne­ra­le di Jootma. Ho saputo come mia sorella si fosse prostrata tutta la notte ai piedi di mio padre, morto. Mio padre era in una trasferta in slitta in missione da medico dal castello di Linnapäh a Jootma ed è morto improvvisamente ed è caduto nella neve, vicino a Castello di Lechts, con mia sorella alla gui­da, che lo stava conducendo a casa in carrozza a cavallo.

Quando siamo arrivati, ed erano già passati 7 giorni, sem­brava ancora dormisse.

Ai funerali, arrivarono dai vari castelli di campagna dei dintorni. Poco dopo il funerale, il mio amico ed io viaggiammo, per giorni senza dormire, da Jootma attraverso Polonia e Vien­na, verso Losanna sul lago di Ginevra, dove saremmo rimasti ancora qualche settimana al Castello Bethusy con sua madre, a recuperare dallo strapazzo. Mi sono ammalato.

Alla fine di aprile siamo tornati a Berlino, a continuare i nostri studi - seriamente preoccupato per il mio futuro, perché mi sarebbe mancatol’aiuto finanziario di mio padre. Ho reso visita al castello di Kurro, alla fine di marzo, in compagnia del mio amico, dove vivevano le mie zie, le baronesse di Maydell. Mathilde v. M., che aveva amato mio padre, mi ha donato un contributo per gli studi.

Nel luglio di quell’anno 1896 son tornato a Jootma, dove mia sorella doveva disfare tutta la grande casa e trasferirsi dal fratello maggiore a Pietroburgo. Il castello Jootma e la pro­prie­tà non ci appartenevano, in quanto erano del barone von May­del, fratello di Mathilde ed Annette.

Nel frattempo, Eduard si diresse verso nord, dove sull’i­so­la di Bornholm è precipitato nel mare, ma senza conseguenze.

Profondamente malinconico, sono rimasto a Jootma, dove una volta avevo vissuto ore felici e mi resi conto di come tutto stava finendo. Da un cavallo venduto, ne ho ricevuto il ricavo. Ci fu poi un durissimo colpo al mio sistema nervoso: Eduard mi scrisse che era sua intenzione di lasciare l’Europa per tras­ferirsi in America.

Gli ho scritto, disperato, perché avevo interrotto, dietro suo consiglio, i miei studi di successo a St. Pietroburgo, dalle prospettive di una carriera rispettabile, tanto più considerato che avevo parenti in posizioni elevate. Il rettore Consigliere privato Nikitin mi aveva consigliato che vi dovevo restare due anni, e voleva darmi delle vacanze per un po’ di tempo all’es­te­ro. Ma, comunque, decisi di rinunciare alla Russia. All’inizio ero solitario a Monaco, quindi con Eduard a Berlino, nella speranza di farmi un futuro in Germania. Ed io potevo sperare nel suo aiuto, dato che me lo avrebbe dato, d’accordo nel 1894. Ma ora era intervenuta la morte di mio padre e quando Eduard mi ha lasciato in asso e andò per sui suoi progetti avventurosi, foss’anche che per un anno, quasi tutto è andato perso, anche se erano rimasti i suoi rinnovati impegni di aiuti finanziari – ma come lo avrebbe potuto fare, se in qualche modo fosse ve­nu­to meno, in qualche modo sciagurato, in America? In questa eccitazione, subii nel salone di Jootma, il primo attacco di cram­pi al cuore, precursore della sofferenza che mi ha poi torturato, in seguito per anni e anni, ed ostacolato per decenni il mio lavoro. Ci fu uno scambio serio di corrispondenza. Siamo traslocati dalle stanze familiari del castello di campagna, con una parte dei mobili che mia sorella ha portato a Pietroburgo. Ho sofferto terribilmente, come se tutto fosse crollato.

Il padre di Agnes, il barone Hoyningen-Huene, venne an­co­ra in stazione, per salutarci. Mia sorella, io, mio ​​fratello Adolf e una persona estone e la cameriera ci imbarcammo sul treno per Pietroburgo. Non avrei mai più rivisto la terra di casa mia.

Ora dovevo stare insieme con Eduard, prima che eseguisse il suo piano fatale. Tanto ottenni da poter, nel primo autunno, viaggiare a Berlino per incontrarlo. Alla stazione Varsavia a Pietroburgo ho dato l’addio ai miei fratelli e lasciato la Russia, per sempre.

Ora mi si presentava un compito molto arduo: far cam­bia­re le intenzioni di Eduard. È stato difficile, molto difficile. Mai dimenticherò quelle ore a Berlino mentre provavo tutto, di tut­to cuore, per evitarmi il peggio. Alla fine cedette. Ero esaus­to, interiormente, avrei anche perso tutto l’orgoglio in una mia rinuncia. Probabilmente c’era dietro una entità superiore, che voleva assolvessi in vita un compito pesante, ma grande. Edu­ard vi faceva parte, probabilmente indispensabile.

Arrivarono altri mesi grevi. Eduard decise, auspicato da sua madre, di fare un dottorato in filosofia e andò a Halle per rimanere indisturbato. All’inizio, restai solo a Berlino, ma oppresso da solitudine e malinconia emotiva. Così ho deciso di andare a Halle, abbandonare anche i miei studi all’accademia d’Arte dall’autunno 1896, come quelli universitari. In quella calma a Halle, Eduard e io vivemmo in separate Chambres gar­nies (camere ammobiliate), assieme che nel pomeriggio – ho composto i miei «Irrlichter» e una biografia «Sabbie al vento», rimasta a tutt’oggi nascosta.

Nella primavera del 1897, Eduard completò il suo dot­to­ra­to con gli esami e ritornò da sua madre sul Lago di Ginevra. Io mi feci, da solo in bicicletta, un tour attraverso la Turingia. A Stoccarda, aspettai di incontrarmi con Eduard, per il suo com­pleanno, il 17. giugno del «nuovo calendario». Da quel gior­no siamo rimasti sempre assieme, abbiamo vissuto e creato – an­che se eravamo nature molto diverse.

La sua parola, che gli cavai a Berlino nel 1896, l’ha man­te­nu­ta e gli ha fatto superare il suo instancabile bisogno di ir­re­quie­tez­za. Se, anche occasionalmente, non è stato facile per entrambe le parti, ma divenne un significativo vivere e pensare insieme.

Alla fine dell’estate del 1897, abbiamo intrapreso un viag­gio in Italia, avendone ricevuto i mezzi da sua madre. Questo viag­gio ci ha portato attraverso tutta Italia fino nel sud della Sicilia. È stata una soddisfazione per lui ed il suo impulso per i viaggi, per me, un’esperienza diversa, l’incontro con il me­ri­dio­ne. A Roma siamo stati in ottobre, per poi tornare a Losanna, passando da Berlino.

Tralascio nel silenzio, inclusi i malanni nervosi che mi ave­vano già allora perseguitato, oltre tacere sul mio lavoro poe­tico di quegli anni.

Soprattutto, parlo qui della via dell’amore; e c’è bisogno di un chiarimento, perché è stata spesso valutata erroneamente. Il mio primo tenero amore è stato per la ragazza Agnes del can­di­do Castello, ma ero anche altrimenti ricettivo agli stimoli delle ragazze. A San Pietroburgo, mi ha affascinato la bella giovane svedese Anna Svenson. Ma – come avrei potuto avere una fa­mig­lia borghese di classe media, fondarla senza un lavoro red­di­ti­zio? e ho sentito in me un grande arduo compito di natura spirituale, che avrebbe potuto rendere poco o nulla in termini di moneta. Delicata, da sempre, la mia salute. Non ebbi mai paura della donna femmina, solo – in quel momento inconscia – c’era un’altra profonda timidezza: non «horror feminae», ma «horror infantis», cioè del bambino e dal metterli al mondo.

Me ne sono allontanato proprio da quello. In parte, perché io stesso avevo sofferto troppo e in realtà prendevo la vita come un compito pesantemente di sofferenze, della quale però ho amato tutto il bello e gioioso. Ero, me stesso, estremamente bisognoso d’amore, di una relazione cordiale, ma senza dover iniziare una famiglia, perché avrei impiegato tutte le mie forze per fare un ottimo lavoro interiormente concretizzato, e in qualche modo sollecitato, alla realizzazione, quale messaggero di un mondo completamente diverso.

Nel 1898, ci trasferimmo in una casa a Charlottenburg, dove avevamo due stanze, di cui una era utilizzata come salone. La donna che ci ha affittato le stanze, dava una bella im­pres­sio­ne polacca, sembrava quasi una ragazzina, ma aveva già tre figlie e un figlio di 12 anni. Ha vissuto separatamente da suo marito, un Renano, mentre lei stessa proveniva dalla Masovia. Dal momento che lei non aveva alcuna somiglianza con sua sorella e i suoi fratelli e la sua vecchia madre ci era simpatica a tutti gli effetti, ero sempre dell’idea che lei fosse figlia di un aristocratico polacco, in quanto mi ricordava la principessa Radziwill.

Questo suo figlio Adolf, un bel ragazzo, si applicò a fare la mia conoscenza; quindi, per farmi un piacere, mi ha pertanto portato una bella falena. Come lui mi ha in seguito confessato, si era presto innamorato di me.

A me piaceva anche la sua calda aura di naturalezza, e come lui stava vicino all’albero di Natale dalle candeline ac­ce­se, nel suo costume da marinaretto elegante mentre recitava versi: lì mi son sentito pervadere da un legame più profondo, di amore, tra noi.

Quando mi sono ammalato a febbraio, da un raffreddore, è andato a prendermi il latte migliore ed ha poi chiacchierato con me. Nella mia convalescenza è venuto a trovarmi e ab­bia­mo giocato assieme, e poi c’è stato un bacio, poi diversi.

Ad aprile, tuttavia, lasciammo Berlino e partimmo per Napoli. Poi mi ha scritto le sue lettere di nostalgia e desiderio, cui anch’io ho risposto.

A Napoli e Pompei, la mia condizione di cuore nervoso in­fie­rì più intensamente. A Natale del 1899, patii gravi prob­le­mi cardiaci; era a Roma, dove avevo passato molto tempo a stu­dia­re nei musei. Abbiamo anche conosciuto l’intel­li­gen­te, ado­ra­bi­le Contessa Lovatelli, nata Principessa Caetani, l’amica di Gre­go­ro­vius.

In quelle settimane difficili, in cui ho veramente creduto di morire, mi apparve, in massima misura, la mia «chiara fede» ovvero il Clarismo. La mia poesia, nata in quella notte in Fras­cati, si sarebbe adempiuta, umanamente e spiritualmente.

Nelle alte montagne della Svizzera, dove eravamo stati in estate, prima del soggiorno romano, le mie condizioni di salute erano anche diventate peggio che a Napoli. Allora videro la luce i versi di riconoscenza per la fedeltà di Eduard, che era cres­ciu­ta con il tempo. In seguito lo chiamerò «Edelwart» «Nobile guar­diano».

 

E offrissi tutte le stelle

Per me Dio ricco,

Non mi piacerebbero così tanto

Come te, da cui imparo

Con quanta fedeltà si possa amare.

 

Nell’estate del 1900, dopo una primavera a Firenze e una cura d’acqua fredda a Grenchen vicino a Biel, che non mi ha affatto aiutato, siamo stati dapprima a Zurigo, e Eduard si è recato a Berlino, appositamente per ricuperare in Svizzera Adolfino – Adolf S, o Fino, come l’ho sempre chiamato, e come pure pia­ce­va alla madre. Sono andato loro incontro a Neuhausen, nei pressi di Schiaffusa, con le sue cascate del Reno. Le splendide settimane a Lucerna, sul Lago di Thun ed in viaggio furono sfortunatamente oscurate dalle mie crisi cardiache. Ma il nos­tro amore ci era abbastanza ovvio. A quel tempo, Fino aveva 14 anni.

Anche a Berlino, dove siamo andati nel 1900, soffrivo spes­so di nuovo, e all’inizio dell’estate del 1901, Eduard mi ac­com­pag­nò in un tour a Bad Cudowa in Slesia, consigliatomi dal famoso medico Dr. med. Gerhard di Berlino. Fino mi scrisse lettere appassionate e alcune settimane più tardi è venuto, da Berlino il 17 giugno, a Cudowa. Per essere onesti con Eduard, devo dire qui quello che lui stava facendo in quel momento per amore per me e senza dirmelo, perché non voleva turbare, in quel luogo di cura, la mia salute. La sua terza sorella, che stava già crescendo e assomigliava alla moglie inglese, era mis­sio­na­ria in Cina ed ebbe l’occasione di una visione della vita in na­tu­ra di popoli primitivi. Bigotta ed intrigante come lei, aveva «cris­tia­na­mente» lavorato contro di noi al cospetto di sua mad­re altrettanto bigotta – avversa a noi, specialmente contro di me. Eduard ne soffriva molto e non volle mettermene al cor­ren­te. Questo mi è stato arrecato dalla cosiddetta cultura cris­tia­na dell’amore per il prossimo.

La cura di Cudowa mi fece bene, almeno per un certo tem­po. Ci siamo tutti e tre insieme messi in viaggio, via Praga e Monaco di Baviera, per il lago di Ginevra. Nonostante tutto, un bel viaggio! Ero solo, mentre Eduard era via per un servizio giornalistico per una manifestazione della settimana della Pas­sio­ne, un giorno da solo con Fino a Losanna, e ci siamo goduti un bellissimo spettacolo pirotecnico sul lago, a Ouchy. Poi siamo andati a St-Gingolphe, al confine con la Savoia francese. Eduard avrebbe poi dovuto visitare sua madre in montagna. Quindi sono rimasto da solo con Fino in una pensione a St. Gingolphe, in compagnia integralmente francese, compresa un’anziana signora di Versailles. Molto gentili con noi. Na­tu­ral­men­te, sono stato celebrato come «Russo» e Fino come «Polacco». Lui a volte suonava la sera, nel salone, con il suo mandolino. E i francesi ci hanno trovato un coppia fascinosa. Fino era anche molto carino nel suo bianco costume con ca­mi­cia rosa ed il cappello piumato. Ma fui comunque felice, quan­do Eduard ritornò dalla visita a sua mamma e andammo in­sie­me a Clarens presso Montreux, dove abbiamo poi con­di­vi­so le vacanze.

Caratteristica, una piccola esperienza nella pensione. Una pia donna avrebbe chiesto a Fino se fossi suo fratello e lui ha risposto, «Sì, un cugino». Quando parlammo di lui, le ho poi detto apertamente: «No, manco lontani parenti siamo.» La ris­pos­ta non sollevò che un sorriso dall’interlocutrice che ri­pre­se: «Il caro ragazzo, ce l’ha messo un orso».Questo dimostra che il nostro aspetto era così simpatico e considerato favo­re­vol­men­te, senza alcuna malizia.

Alla fine di settembre, Eduard dovette andare a Berlino, dov’era stato assunto dalla «Deutschen Zeitung», quale critico teatrale. Posizione, per procacciarsi altri mezzi. Quindi era pronto ad aiutarci ad essere entusiasti per ulteriori problemi. Con Fino, sono rimasto ancora a Clarens e fui contento del suo amore e del suo desiderio malizioso di tirarmi su di nuovo, ancora e ancora. A quel tempo dipinsi il suo ritratto con la corona di falso zafferano (Colchico autunnale), che, per molti ulteriori anni, ha trovato la considerazione generale ed è stato spesso riprodotto.

Ho anche viaggiato con lui via Zurigo nel ritorno in Ger­ma­nia, prima a Stoccarda e Weimar dove siamo andati a teatro e abbiamo visto «Oberon», sempre in uno stato d’animo molto felice. A Stoccarda ci hanno nuovamente preso per fratelli.

Seguì l’inverno a Charlottenburg, dapprima con un’es­pe­rien­za imbarazzante, perché la mentalità ristretta e maliziosa di qualche persona sospettò della mia relazione. Fino ne era infelice, ma sono andato senza paura da sua madre che si è ritrovata a riconoscere i nostri rapporti, dal momento che lui ha preso lezioni da noi, francese e storia con me, inglese e tedesco da Eduard. Ogni sabato sera Fino giungeva da noi e ci rimaneva la notte, spesso dopo una serata di teatro.

Sfortunatamente, i miei disturbi nervosi al cuore si sono presentati ancora e ancora, in modo da non poter quasi mai sfruttare i biglietti gratuiti per il teatro, che Eduard riceveva come critico per il giornale. Anche per Eduard il clima era pessimo. Così, l’inverno è passato, e in primavera mi sarei recato a Herrenalb nella Foresta Nera, per una cura che tanto bene aveva fatto a mio fratello Adolf. Ma la cura non fece effetto.

Fino ha scritto delle belle lettere per tirarmi su di morale. Sentivo che la salute di Eduard, come la mia, richiedevano un immanente trasferimento a meridione, ma non volevo che terminassero i rapporti con Fino e la infinita cordialità nem­me­no perderla, quindi mi rivolsi a sua madre affinché ce lo af­fi­das­se: volevamo farlo studiare come fotografo d’arte, come in Italia ci sanno in modo eccellente; e avrebbe anche avuto più che ottime prospettive. La madre mi ha scritto che conveniva che Fino sarebbe stato meglio con noi, d’accordo.

La mia terapia mi è stata molto sfavorevole, ne ho quasi sofferto e il medico finalmente mi ha consigliato, dopo le colline, di provare di andare al mare. Eduard mi ha preso e abbiamo viaggiato sino a Berlino, dove abbiamo portato con noi Fino a Rügen. Aveva ormai sedici anni, e non vedevo l’ora di trasferirmi con lui in Italia, la terra del sole e della libertà. Fino era fondamentalmente molto geloso, e lo preoccupava che a Firenze, dove volevamo muoverci, viveva un ragazzo che mi voleva bene. Nel 1900, lo avevo incontrato e anche sua madre ha detto al momento del saluto a questo Guido: «Dai un bacio al signore». E così è successo. Nel 1902, Guido mi scrisse che era in vacanza estiva a Viareggio al mare e, per prima cosa ogni mattina, baciava la mia immagine . Questo agitava Fino – ma il mio amore era vero ma soprattutto per lui, che ha incontrato me e dimostrato il suo.

Da Rügen, con Eduard siamo arrivati ​​a Berlino e poi prima al lago Lemano, dove Fino ci avrebbe presto dovuto seguire.

Ma lì è poi successo qualcosa che mi ha sconvolto. Fino non ci ha raggiunto perché la madre non ha mantenuto la sua promessa, no, lo ha collocato in apprendistato da un dentista, e lei sperava, così, di ricavare da lui un provento sicuro, come fece, per preservare il provento alla famiglia dato da suo fra­tel­lo, distruggendone il suo fidanzamento.

Questa è stata per me una durissima botta. Ritorno a Ber­lino, città proibita dalle nostre condizioni di salute. E così par­tiamo per Firenze da soli, dove avevamo, con le vacanze estive, per molti anni, vissuto in una pensione. In estate eravamo spes­so sul Lago di Ginevra, dove ho incontrato il figlio del pro­prietario nella pensione, che si è unito cordialmente; ma ho sempre sofferto la separazione da Fino, che ho amato per sempre.

Nell’estate del 1905, il ragazzino Albert fu l’unico Bacco alla festa dell’uva (fête des vignerons) a Vevey, dove ne ho fatto un ritratto, raffigurato da Bacco, disegnato e successivamente dipinto. E all’Hotel des Alpes ho conosciuto una elegante, graziosa signorina, Renée Marguerite Patry – volentieri mi guardava quando ero preso a dipingere e chiacchieravamo in terrazza sul tetto della casa, dalla splendida vista sul lago. Era molto comprensiva nel suo fare finemente allegro, e di lei mi ha dato una bella foto dalla calorosa dedica. Lei proveniva da una famiglia di Ginevra, ma viveva a Londra e scriveva da lì e poi dall’India.

In questa occasione, voglio ricordare anche un’altra sig­nora, un’aristocratica svizzera, il cui padre era stato un ge­ne­rale napoletano. L’ho incontrata durante un tour da Lucerna a Locarno, e ci ha seguito fino all’hotel di Locarno, dove vi abbiamo soggiornato, la prima volta, solamente un giorno: Christine de G., amica della contessa Diesbach del Bernese, visse in Francia e mi ha successivamente visitato a Firenze. Senza dubbio, lei mi amava, e mi ha scritto frequentemente; parecchi anni più anziana di me, assomigliava a una signora del Rococò. Avrebbe sicuramente tentato di convertirmi al cattolicesimo.

A Bologna, ho incontrato una baronessa Verano e con lei la bella figlia cui sono piaciuto, e abbiamo anche scambiato al­cu­ne lettere; ma potrei che non pensare a connessione seria, anche al di là delle conseguenze. Per questo, e perché non ne avrei avuto i mezzi. Eduard era il mio posto rifugio, anche se l’ho sempre fatto vivendo in contrasto dalla sua fa­mig­lia. La mia vita era in realtà come il muovermi su un molo al di sopra di un abisso, perché guai! se Eduard fosse morto prima di me, la mia sofferenza nervosa mi avrebbe reso impossibile di im­por­mi sul duro stile di vita. Ma ha funzionato, e ho creato in continuazione. Di questo c’è la testimonianza nei miei dipinti grandi e piccoli, e nelle mie pubblicazioni e molti manoscritti non pubblicati. Quindi, non c’era l’impaccio dall’uso faticoso del lavoro quotidiano, ma l’impedimento di sostenere una fa­mig­lia ed una sua acquisizione.

Ricordo ancora due donne americane. Una era una signora snella ed energica dell’Ohio, sposa di un tedesco cattolico, di molto più anziano: Martha B. Ci siamo intrattenuti nella pen­sione, per due inverni e sera dopo sera, a Firenze. Lei mi ama­va, capiva anche me e mi disse una volta: «Con ogni nuovo libro, sarai sempre meno capito da tutti» Alla nostra se­pa­ra­zione lasciò trasparire le lacrime. È morta nella prima guerra mondiale. L’altra americana, il cui marito, nativo norvegese, a New York guadagnava come ingegnere mentre lei in Europa viaggiava per diporto, era snella, elegante e anche carina, ancora giovane donna. L’ho imparata a conoscere a Losanna. Quando ero a Lucerna, lei mi raggiungeva, sperando di con­clu­dere con una vera e propria relazione. Ogni giorno, aveva quasi sempre un nuova «mise», ed un vecchio ex-console olandese le prestava attenzioni, soprattutto quando sua moglie stava da qualche altra parte, ma non gli riuscì ad ottenere il suo favore, sebbene l’abbia spesso portato al Five-o’clock nel grand’hotel di Lucerna, mentre io me ne restavo rintanato in cima al Gütsch. Ed era così incavolato che una volta disse: «Che uomo sia più carino di un scimmiotto, questo non va». La battuta era destinata a me, ma non deve aver fatto presa sulla signorina Phila B., che interpretò tutte le arti a sua disposizione per tra­viar­mi al ruolo di un fidanzato, e senza troppi complimenti. Ma avevo in quel momento una buona ragione per essere triste: lei era furba e scaltra, cercando di impossessarsi del posto lasciato da un amore distrutto, che lo era dopo che avevo rivisto Fino in primavera a Berlino, in immutati sentimenti e cordialità; la madre lo vi ci avrebbe costretto a scrivermi quella lettera che tanto mi ha ferito. A Phila tutto raccontai, per filo e per segno. Del suo lontano marito, ne usciva una descrizione di brutalità; ma non per questo, anche se lei mi piaceva, e non vo­le­vo es­ser­ne coinvolto, in quel modo, in una fugace storia d’amore. L’alt­ra, meno bella, avrebbe avuto sentimenti, spirito e carattere. Ma entrambe le donne mi hanno dato un’idea della sicura vita di sé della donna americana.

A Firenze, mi sono conosciuto con una famiglia italiana, il cui giovane capo era ufficiale italiano, a quel tempo capitano, più tardi deceduto da generale Bandozzi. Propose sia a me che a Eduard l’uso del «tu», cosa che non potemmo rifiutare. Sua moglie era una baronessa nata in Portogallo (Paiva d’Andrade), e sua nipote Tedda era discendente da una nobile famiglia Pisana. Questa nipote era ipotecata da affetto per me, e lo era anche nelle domande di sua zia quando chiaramente voleva esplorare come sarebbe stato, se uno di noi avesse voluto spo­sar­si. Scherzosamente, rispondevo che noi, entrambi, dov­rem­mo prenderci. La frequentazione dell’allora società italiana non mi ha mai affascinato, perché erano gente molto superficiale e grande parte della conversazione consisteva in solite frasi di convenienza. La nata portoghese era una bella donna e semb­ra­va soffrire delle continue scappatelle di suo marito, e con lei sarei stato felice di intrattenermi, ma secondo gli standard tedeschi non ha funzionato, nei rapporti privati, con ap­pun­ta­men­ti a giorno fisso, in momenti che non mi erano appropriati. Nella mia «Fiorentina» XLIII ho registrato una pic­co­la is­tan­ta­nea di quelle mondane serate sociali. Tedda mi ha scritto d’es­ta­te quando eravamo assenti da Firenze, ma anche quello ri­ma­ne­va molto esteriore, affascinata lei, io niente affatto. Abbiamo lasciato Firenze e ho sentito ancora di lei che quando fi­nal­men­te ho ricevuto un annuncio della sua unione con un marchese austriaco, dopo che era sempre stata ostile agli austriaci. Bene, quest’uomo, il cui padre o nonno era alla corte dell’ultimo gran­duca toscano, un de Blaisel, che poi si trasferì da lei in Italia.

Vorrei tornare al menzionato mio ultimo incontro con Fino. Era il 1904 quando lui aveva 17 anni contati. Abbiamo raggiunto Berlino, d’accordo con lui e senza che lo sapesse sua madre ostile, che temeva perdere il beneficio economico di suo figlio. C’erano dei bei giorni di Pentecoste, e lui sapeva vi­si­tar­mi ogni giorno, in un caldo amore, come prima.

Ma sarebbe stata l’ultima volta!

Quando ripresi dietro suo suggerimento con lui, ancora una volta alcuni anni dopo, uno scambio corrispondenza, e ci accordammo di incontrarci in Germania, già a Bolzano mi raggiunse un messaggio - dalla madre, in cui attaccava sia me che lui dispettosamente; sì, non aveva manco paura di de­nig­rare il proprio figlio, affinché me ne sbarazzassi. E’ stato in­cre­di­bile, e il viaggio da Bolzano a Monaco di Baviera, con ben altro che batticuori. E questo si chiama amor materno! Mi aveva lui stesso scritto, che lui per sua madre non era che un caballus da tiro imbrigliato al lavoro. Sfortunatamente, Fino aveva un grosso difetto: mancava in lui il personaggio fi­du­cio­so, e aveva paura di combattere. Un anno dopo, scrisse una bella lettera in cui mi disse: «Non so cosa ti abbia allora scritto mia madre, ma ti assicuro: ti amavo, ti amo e ti amerò per sem­pre – ma hai ragione ad essere arrabbiato con me.»

Al momento, tuttavia, questa lettera non mi fu consegnata da Eduard; temeva che mi sarei rivolto a Fino di nuovo da in­na­mo­rato e potrebbe esserci poi stata una rinnovata, prima o poi, esperienza di fallimento che desse una fatale mazzata alla mia salute già di per se assai minata. Quando ho letto la let­te­ra, diversi anni dopo, era troppo tardi. Nell’autunno del 1915 ne ho ricevuto ancora i saluti da un lazzaretto a Bruxelles. Il mio Fino cadrà il 7 luglio 1916 vicino a Péronne, per la sua patria tedesca, da parte dei francesi, la cui lingua aveva da me imparato. La sua fine, come medico caporale alla guardia, dove aveva servito.

Devo qui aggiungere due piccole esperienze, perché di­mos­trano quanto naturalmente umano potesse essere, nel primo quarto di questo secolo in Italia, il vivere senza ordinaria cat­ti­ve­ria. Nel 1903 a Firenze, ad una edicola entrai in con­ver­sa­zione con un ragazzo fiorentino di 14 anni. Mi ha fatto varie visite alla pensione, dove eravamo alloggiati, e volevo re­ga­larg­li una bella cravatta, al che l’ha rifiutata, non avrebbe potuto indossarla, perché suo padre si sarebbe chiesto, da dove lui l’avesse avuta. Così gli dissi: «Lo sai, io voglio conoscere tuo padre, affinché lui sappia con chi hai a che fare». Suo padre era uno scalpellino, e il ragazzo lo aiutava nella sua bottega, dove principalmente eseguiva le copie di statue antiche e rinas­ci­men­tali, per la vendita. Amleto era pronto a quel passo e mi ha condotto all’atelier del padre, che conobbi come molto intel­li­gente, uomo energico e amichevole, con esso potei parlare di molti argomenti. Gli devo aver fatto un buona im­pres­sio­ne, e da allora al figlio fu permesso di avere a che fare con me, in­dis­tur­ba­to. Era un ragazzo entusiasta di sport, elogiato come cor­ri­dore, eppure abile ad essere anche ritratto come … Madonna! come anche Raffaello aveva dei modelli per alcune sue Ma­donne.

La seconda, delle piccole esperienze è successiva. Per il tramite del giovane Amleto ( il padre gli diede questo nome in quanto appassionato di letteratura, come appioppò agli altri figli quelli dei tre moschettieri) ho anche imparato a conoscere Corrado, il cui padre era un rispettato architetto e professore presso l’Accademia delle Arti. Dopo la mia estate assente e sul Lago di Ginevra, tornai a Firenze ed ecco che Corrado non ero più in grado di incontrarlo dove si trovasse per strada, spesso quando usciva dal liceo che frequentava. Mi interessava perché era brillante, ma naturalmente più impetuoso di Amleto. Scris­si al professor R., informandomi dov’era rimasto suo figlio che avevo conosciuto per il tramite di suoi compagni, con il quale mi ero intrattenuto. Arrivò una lettera gentile del professore in cui mi spiegò che aveva dovuto portare il figlio in un collegio a Prato perché era troppo sveglio e lui stesso, come vedovo, nella sua posizione professionale, non era abbastanza in grado di occuparsene. Ma era comunque pronto ad accompagnarmi a Prato per vedere suo figlio. Ho quindi visitato il professor R., conoscendo una persona intelligente e vivace. Conoscendomi a sua volta, dopo aver visto un mio autoritratto, mi ha rilasciato un certificato, grazie al quale, come pittore, ho poi ricevuto il permesso ufficiale per entrate gratuite a tutti i musei. Eduard aveva questo permesso, grazie al suo libro su «Pompei e la sua arte».

Il professor R. è venuto con noi a Prato; il rettore del col­le­gio arrivò e il professor R. gli spiegò che avrei avuto il diritto di portare in libera uscita il suo Corrado. Anche Corrado è poi apparso e io l’ho baciato in presenza del rettore e del padre. Non testimonia, questo, di una cultura umana naturale, come in quella antica degli Elleni? A differenza di alcune aree in cui, sempre, il dispettoso deve gettare fango su tutto.

Una volta, mentre stavo fotografando il ragazzo, il padre passò per caso e ne fu contento; e lui è giunto a chiedermi se non potessi rendere, amorevolmente, la vita di suo figlio più seria e coscienziosa, anche nello studio. Naturam espelles, tamen revertitur, ovvero, la natura nativa non può essere esor­ciz­za­ta, lei continua ad affermare se stessa. Fonda­men­tal­men­te, Corrado era un giovane franco, non male affatto. L’ho ri­vi­sto diversi anni dopo e dava sempre ancora la sensazione di giovinezza; ormai era diventato un ballerino e molto era in Inghilterra dove il padre lo aveva mandato da pa­ren­ti. L’Italia aveva mantenuto qualcosa di suo dell’allora an­ti­chi­tà indigena, specialmente in Toscana – Siena e Firenze – dove l’intelligenza naturale stessa non sono così impadronite dalla chiesa, come invece in Umbria, in Liguria e Piemonte. La gioventù maschile in Italia era certamente più libera che quella femminile – in quel momento. Una signora già matura, come la nobile sig­no­ri­na Tedda, di cui ho già parlato, non era auto­riz­za­ta a fare le sue visite a Firenze da sola, nemmeno presso la signora americana che conoscevamo assieme. Gli italiani con­vin­ti, che una libertà avrebbe potuto funzionare che per le nor­di­che e non per le donne italiane dal sangue caldo.

E ora arrivo a un’esperienza meravigliosa diventata sig­ni­fi­ca­tiva per il lavoro della mia vita artistica. San Sebastiano, l’ho studiato per anni nelle opere artistiche d’Italia, grazie a lui, che doveva essere ritratto nudo, l’arte medievale poté confrontarsi con le fattezze umane e nel Rinascimento Apollo riprese vita in San Sebastiano. Eccomi pertanto a esplorare città e chiese alla ricerca di queste rappresentazioni.

Siamo così giunti a Genova, nella chiesa di Santa Maria del Castello, dove in una sacrestia Eduard scopre un quadro con un immagine di quel genere. La volli io stesso documentare, fa­cen­do­ne una fotografia. E un ragazzotto che viveva nell’a­dia­cen­te Convento dei Domenicani, in una settimana avrebbe compiuto i 16 anni, si prestò volonteroso ad aiutarmi. Era un ragazzo ca­ri­no e simpatico un ciuffo dai capelli nero-blu e scuri, neri-mar­ro­ne gli occhi, la carnagione molto delicata e pallida. La sua espressione aveva qualcosa di malinconico. Ho avuto un in­te­res­se interiore per lui e presto venni a sapere che non era af­fat­to contento dei monaci. Suo padre era un campagnolo pie­mon­te­se, amministratore, oltre i propri terreni, di quelli di una ricca famiglia torinese.

Luigi Tarino, che era il nome del ragazzo, non era adatto alle bisogne della campagna così che, dopo altri tentativi, finì in questo monastero. Ho parlato con lui, e lui mostrò di gra­dir­mi, mi ha anche visitato fugacemente nell’albergo a Genova, dove eseguii un bel suo disegno. Eduard e io siamo partiti pres­to verso Savona e da lì gli ho scritto, ma non ne ebbi ris­po­sta. Di ritorno a Genova, ci siamo rincontrati nella sacrestia, dove mi ha confessato che la mia lettera era stata aperta dal Priore del convento che lo sottopose ad interrogatorio. Così, divenne ancora più cordiale e si decise, di corrispondere per il tramite del Posta restante, visto che eravamo in procinto di tornare a Firenze. Io però ero determinato a chiedere al padre se gli sarebbe piaciuto che il figlio, che ho sempre chiamato Gino, entrasse al nostro servizio. Il padre gli ha dato il permesso, visto che il ragazzo era infelice nel convento. Gino mi ha con­fi­da­to anche molte cose dalle sue esperienze locali, cosa che mi ha dimostrato che aveva un carattere sincero, avverso a tutto l’erroneo gioco contro il peccato, specialmente un’esperienza nella chiesa, respinta, perché lui unicamente considerava uno stile di vita onesto.

Abbiamo avuto uno scambio di lettere e lui ci ha visitato per Natale, a Firenze. Poi, nel febbraio 1910, il padre fu d’ac­cor­do, per così dire lo ha liberato, ed il priore non potè impe­dir­lo. È venuto al nostro hotel con la sua valigetta e siamo par­titi da Genova, prima per Lugano, dove riebbi le mie crisi car­dia­che di cui soffrivo e ci siamo pertanto nuovamente messi in viaggio per Milano. Faremo un periplo verso destinazioni all’e­gi­da di diverse opere rappresentanti San Sebastiano, visto che anche questa nuova e rincuorante conoscenza era dovuta al San Sebastiano ed al suo altare. Siamo stati al Lido di Venezia, ed ero felice per il suo naturale, amichevole e franco modo di fare, e in sei mesi lui, il sedicenne, aveva imparato così bene il te­des­co da memorizzare un mio poema. Poi ci siamo diretti sull’ Austria, dove a Salisburgo ci incontrammo per una set­ti­ma­na con mia cugina Anna von Rennenkampff, in modo molto pia­cevole e pieno di comprensione – poi a Monaco di Baviera. Questa vita da signori, completamente insolita per lui, può anche averlo, un pochino, squilibrato. Esteriormente appariva come un giovane contino o un conte, ma doveva anche im­pa­ra­re ad adattarsi alle nuove condizioni, spesso confrontato con il germanico e situazioni a lui aliene. L’inverno eravamo a Fi­ren­ze, poi in Riviera a Viareggio in un bell’hotel che in bassa sta­gio­ne era molto interessante per il prezzo. Quando, per alcuni giorni di «Libeccio» il vento ha iniziato a farsi sentire e mi ob­bli­ga­va a restar chiuso in camera sdraiato a letto, mentre Gino ed Eduard erano nella sala da pranzo per la pensione, ho vis­suto qualcosa di imbarazzante. La ragazza addetta alle stanze desiderava una relazione con me, sì, la sua collega se ne fece portavoce invitandomi a prendermela nel letto. Im­pen­sa­bi­le, anche se lei non mi dispiaceva più di tanto ed era altrimenti molto amichevole. La sessualità non è mai stata per me de­ter­mi­nan­te, ora anche con il pericolo di conseguenze per malattie, ma per una questione di pura umanità, oltre che per il mio compito di vita e l’aspetto pecuniario. Cosa mi costantemente rallegrava del mio amico di 17 anni, Gino, era l’integrità di sentimento.

Nel 1911, abbiamo deciso di farci la nostra abitazione nella parte rurale di Firenze, sotto Fiesole. Gino si è sempre formato ulteriormente ed in modo tale che lui, più tardi nel 1913, fu in grado di superare il suo esame di volontario che gli permise di entrare in guerra come aspirante ufficiale nel 1915, e presto sa­reb­be diventato tenente; aveva da sempre avuto grande voglia d’istruzione e molti interessi intellettuali. Nel 1911 visit­am­mo la Germania. La nostra vecchia conoscenza di Berlino, che ab­biamo visitato a Jena, alla vista di lui, disse immediatamente: «È puro Antinoo!» Spesso, durante il viaggio, fu soggetto all’ am­mirazione. A Monaco, la nostra amico di Brema, una scrit­tri­ce, fece notare che sarebbe fin troppo bello da non provocare perplessità in Germania. La cosa mi indignò. come se la vera bellezza ci fosse esclusivamente per essere stimata (o sva­lu­ta­ta) sessualmente! Da vero tedesco, mai avevo pensato così. Un popolo che pensa in modo naturale alla cultura, dov­reb­be poter superare un tale modo di pensare così assurdo ed impuro. L’Ita­lia era in questo ambito un modello. E anche Gino lo per­ce­pi­va, anche se era abbastanza amichevolmente disposto verso i tedeschi e, gradualmente, aveva anche appreso a parlare un buon tedesco. Inoltre – ha imparato l’italiano per nostro tra­mi­te, visto che prima usava il piemontese. È così che vi­ve­va­mo nella nostra casa fiorentina, fino allo scoppio della guerra mon­dia­le, proprio quando lui aveva completato il suo anno di vo­lon­ta­riato. Eduard e io, appena stati in Normandia nel mese di luglio, riuscimmo a prendere uno degli ultimi treni da Parigi a Basilea.

A Zurigo abbiamo vissuto i disordini dello scoppio della guerra e presto ci affrettammo a rientrare verso l’Italia e Firenze.

Ora dobbiamo spiegare il significato di Gino per il mio dis­piegarsi della pittura. Anche se avevo già fatto studi su Fino, e, nel 1905, dipinsi l’ammirato «Fiorenza» e poi, nel 1908, l’im­magine in cui l’aquila oscura come la morte rapì il giovane Gani­mede in un altro mondo, mentre il cagnolino, come il resto della terra, era ancora attaccato a lui. Ma fino allora i miei studi sul corpo erano stati eseguiti su me stesso, grazie agli scat­ti che l’amico Eduard eseguiva dietro mie dettagliate in­di­ca­zio­ni artistiche; e ci fu un eccellente successo tra loro, come nel viaggio greco del 1908, e già nel 1905 a Pompei, che pot­reb­be benissimo dimostrare che il corpo del poeta-artista cor­ris­pon­deva a quello degli antichi Efebi e così servire al suo lavoro artistico-intellettuale. Questo era vero per forma, linea e im­pos­ta­zio­ne, ma attraverso Gino, che aveva un corpo simile al mio di quegli anni, mi è stato possibile, pure studiarne a fondo i colori, anche all’aria aperta, nella verzura e sul mare. Siccome io, dal mio imprevedibile cuore nervoso, mai un giorno prima o quasi potevo definire in anticipo un «modello» per lo studio, mi si presentò la liberazione da questa difficoltà nell’ordinare un giovane e bello amico a pittoresca disposizione il giorno e l’ora che mi erano più favorevoli. Così, questo amore è di­ven­tato una promozione di grande arte.

Nella primavera del 1912, mia sorella mi visitò a Firenze, dopo lunghi anni di separazione: Frieda, che viveva col marito a Pietroburgo. Ne fui felice con quale comprensione questo saggia, donna calorosa, delicata e naturale, abbia apprezzato i dipinti che avevo creato e anche con che gentilezza superiore ha incontrato il mio Gino. Proseguì il viaggio per Roma e Na­po­li e rimase di nuovo con noi, per poi via Germania e Svezia, tornare a Pietroburgo. Non l’ho mai più rivista. Tramite lei ho appreso, per così dire, cosa e come si stava preparando nel Bolscevismo con i cosiddetti «Hooligans» ed «mob» di agi­ta­to­ri. Mio fratello maggiore, direttore della Fattoria Imperiale di Polvere, una fabbrica di esplosivi, a Schlüsselburg, abbastanza amico dei lavoratori, lo aveva anche lui potuto osservare, come mi ha riferito, quando da l’ultimo lo vidi nel 1913, con la sua bella, carina moglie a Monaco: non ci sarebbe voluto ancora molto più tempo che il disastro si sarebbe compiuto. Nel 1929 sarà vittima dei bolscevichi, perché Stalin non poteva tollerare, come manager di lavoro popolare, convinti cristiani, com’era e si professava mio fratello.

Quando è iniziata la guerra mondiale avevo, a parte gli stu­di sul colore, già disegnato in piccolo le figure del mio «Chia­ro Mondo». Queste sono poi da me state raddoppiate nel­le dimensioni e quindi nuovamente quadruplicate; questo ha portato alla purezza e matura armonia delle linee. L’inverno della prima guerra, quello del 1914/15, Firenze divenne difficile per noi. Gino è tornato dopo il primo anno di servizio di nuovo da noi, ma crebbero i pericoli che l’Italia doveva affrontare con­tro gli alleati della Triplice Alleanza. Ora appartenevamo da baltici alla Russia e all’intesa, ma come Teutoni eravamo es­pos­ti alle ostilità, perché l’Italia sottolinea la razza e il lin­guag­gio, non il passaporto. Sulla nostra porta: «Morte ai Te­des­chi», «Tod den Deutschen!». Quindi abbiamo deciso, af­fi­dan­do­ci ai consigli degli amici fiorentini, di lasciare Firenze e spostarci in Svizzera. Triste e solo, Gino nel nostro ap­par­ta­men­to.

Non voglio parlare della guerra qui, solo di cose rin­cuo­ran­ti. Gino subito dopo, come la guerra italiana è deflagrata, entrò al servizio dell’esercito e si è spostato verso il fronte sull’Austria. Non è stato facile per lui, dal momento che tra­mi­te noi imparò a conoscere e amare gli intellettuali tedeschi. Ogni settimana, mi scriveva due volte dal fronte. Ero sempre preoccupato per lui e gli scrivevo da Locarno anche al fronte, ogni settimana. Una volta, restato senza notizie e tememdo il peggio, ho mandato un telegramma al fronte: come stava, e ho anche ricevuto una risposta telegrafica dal supervisore, tra lo stupore di un ospite tedesco in un albergo a Locarno, che aveva dichiarata come impossibile una cosa del genere. Ma lì erano più umani, cosa che certamente qui voglio sottolineare. Nelle sue cartoline ha sempre espresso i suoi sentimenti, «affettuosi saluti e baci». Di questo dovrebbero altri popoli, quindi miei cari tedeschi, imparare che la vera cultura consiste nella au­ten­tica sincerità e non in un cattivo dressage contro i sen­ti­men­ti dell’individuo, se è ligio al suo dovere nei confronti di per­sone e Patria.

Il 7 luglio 1916, in questa guerra, il mio Fino, dal lato tedesco, caduto per la sua patria. Ne ho già raccontato. Gino, tuttavia, venne allora nominato sovra-tenente.

In un soggiorno a Zurigo nel 1913, avevo incontrato una signora Margarete von B., il cui marito era tedesco-americano. Mi si era profondamente affezionata. Bene, nella guerra, l’uo­mo ha sperimentato cosa volesse dire essere favorevole ai te­des­chi in America, un’avventura penosa, l’hanno persino ri­cat­ta­to politicamente per renderglielo impossibile; ma las­cia­mo perdere, su questo preferisco tacere. Presso questa signora v. B., ho incontrato un ragazzo, Jeanli B., che suonava con il di lei figlio Arald. Dato che mi aveva fatto una buona impressione, l’ho invitato per dipingerne un ritratto. E così siamo ci siamo ravvicinati, a poco a poco ci si unì di cuore. I genitori erano semplici, piuttosto poveri, la madre un’italiana, la nonna un buon tipo italiano (che ricordava la nonna polacca di Fino) dal­la patria del Tiziano e presto amichevole nei nostri con­fron­ti.

Nelle estati della guerra, abbiamo trascorso mesi a Zurigo, e Jeanli, come è poi stato chiamato, mi ha sempre visitato, in modo che la nostra relazione sia fece più grande e migliore. Ci innamorammo profondamente. Eduard ed io, determinati ad aprigli una migliore carriera rispetto a quella prospettata dalla commissione di tutela di Zurigo, che aveva preso in cura la famiglia del padre malato. Dapprima potemmo portarlo in una scuola di disegnatori. Poi apprendista di un buon architetto e persino anche al Technikum di Winterthur. Di tempo in tempo, ci ha visitato a Locarno, e di nuovo ebbi opportunità di comp­le­ta­re i miei studi sulle arti. Nel 1917, trascorse due mesi con noi a Lugano. Tuttavia, malgrado i miei nervi, ci sono stati bei giorni, e una signora, che conoscevamo da Firenze e che lo ha visto con noi nella pensione, ha detto, come avevo già avuto modo di sentire: «Abbiamo un bel vedere – così chic è il pic­colo amico!» Sì, nei giovani che si sono uniti a me con calore, c’era sempre stato qualcosa di sottile, sì, di per sé nobile, e nessuno avrebbe potuto notare una differenza di classe sociale tra me e loro – appartenevano in verità alla mia classe, alla lunga attraverso lo stato interiore e gli interessi spirituali, e l’es­te­rio­re era anche naturale per loro. La cordialità è anche un ponte atto a superare folli barriere sociali e annesse tensioni.

Cinque anni durò questa relazione d’amore e sempre cres­cente, come dimostrano le sue lettere. Anche la Chiara Fede lo colmò allora, e a diciott’anni, mi disse che lui non voleva sop­rav­vi­ver­mi. Ma subentrò un avvenimento del mondo del Caos. Il padre era tubercolotico, madre tenera e malata, e c’erano quattro sorelle oltre a Jean e un più giovane fratello minore, e la nonna; il suo stipendio divenne indispensabile ma troppo esiguo, il peso di sette persone cadendo in gran parte sulle sue spalle. Sfumò per Jeanli la speranza di trasferirsi nelle mie vicinanze. Fu preso, nella disperazione di annullare le com­ples­sità che doveva affrontare, ad emigrare in America. Storia pesante. Ho dovuto rinunciare a lui, il che significò che il mio comunque stato di salute debole, temporaneamente andò ancora di più in frantumi, soprattutto perché noi, Eduard e io, ci sentivamo molto soli a Locarno a causa del mio carattere caloroso, e l’ambiente freddamente commerciale rappresentava un clima difficile in senso spi­ri­tua­le, nonostante la bellezza, posizione e clima fisicamente soleggiato. Era lo scambio spi­ri­tua­le che ci mancava, perché, per lavorare, di nostre risorse ne eravamo stati dotati.

A quel tempo ho conosciuto una molto simpatica e cordiale donna, che poi ci visitava nel nostro modesto alloggio e no­nost­an­te il dipinto, nuovo per lei e dalle forme scoperte che erano già state create, è stata talmente coinvolta da chiedere per il suo compleanno, che cadeva il quel venerdì santo, di poterlo vivere con noi. Il suo uomo viveva a Buenos Aires ed era un cit­tadino tedesco, lei stessa era la figlia di uno alto prelato dei Cappellani concistori nel Meclemburgo: Maria H. de B. Ci sia­mo avvicinati sempre più e anche lei mi ha aiutato con mezzi per servire la mia arte. Sì, come noi, Eduard e io, diventammo cittadini svizzeri del Ticino, prassi collegata a costi cospicui, ho trovato una mattina nella cassetta delle lettere una busta con 1000 Franci come contributo alla naturalizzazione. Che atto nobile per aiutare! Una volta ammise che se lei, da ragazza, ci fossimo incontrati, mi avrebbe sposato. Adesso aveva dieci anni più di me, ma ancora una donna adorabile e madre di tre figlie e due figli. Era, per la sua salute, a volte in Europa – e dimostrava molta umana pazienza con suo marito, che dava seguito senza remore alle sue disordinate pulsioni sessuali.

Un giorno avrei anche conosciuto sua figlia Elsa, sposata con un avvocato in Hannover, ma non ne era felice. Questa figlia ha avuto un vivo affetto per me e mi ha fatto visita. Sì, voleva sposarmi, e lei era d’accordo con il mio senso dell’amore emotivo su molti lati, che era sempre determinato accanto al senso di calore e buon cuore. Quando doveva andare a casa da suo marito, voleva tornare immediatamente per aiutare me e la mia vita. Suo padre stesso era insoddisfatto del di lei marito e sarebbe stato a favore di un divorzio, assistito da mezzi. Se avessi promesso, ci sarebbe stata una soluzione, e Eduard av­reb­be incoraggiato tutto ciò che potevo sinceramente ac­cog­lie­re, anche in unità fedele. Ma è stata la madre che mi ha av­ver­ti­to altruisticamente, perché pensava che non potevo essere felice con sua figlia. Il distante marito intervenne ca­te­go­ri­ca­men­te, e Elsa non mi vide mai più. Più tardi, finì divorziata. Con la bella madre, che ha sofferto molto, sono rimasto amico. Sofferta com’era, morì in Argentina, dopo che suo marito, che non era ricco come sembrava, e quindi non poteva sostenere il suo desiderio di comprare una villa che lei avrebbe voluto a Locarno. Mi piace pensare a questa donna attaccata emo­ti­va­men­te, che, sfortunatamente, non è potuta rimanere a Locarno per sempre, dove lei e Eduard, che ci siamo sentiti soli – anche se da soli – hanno mostrato molto amore e ne avrebbe pure ricevuto da noi.

Con passione e pazienza prestai attenzione all’esecuzione del lavoro della mia grande vita, il «Chiaro Mondo».

Ma prima devo rivolgere il pensiero ad una donna che è stato collegata a me attraverso anni di fedele cordialità e si­cu­ra­mente sarebbe stata felice e fatto di tutto per rendermi felice se lo avessimo fatto insieme. L’abbiamo conosciuta nel 1915, quando la incontrammo con suo fratello Heinrich, che era a Firenze come libraio ed era tornato, in età, a casa a Zurigo: Karoline H., in seguito chiamata Lia. Dal primo giorno, per quanto le fosse permesso da timida innata, faceva quanto mi poteva svelare, guardandomi negli occhi. Spesso eravamo ospiti da lei durante l’estate, sì, quando era in vacanza, ci è stato permesso di usare il suo appartamento. Non man­che­reb­be mai in bontà e cor­dia­li­tà sì, dopo che si era dimensionata emotivamente per la mia relazione con Jeanli, per la quale era stata provata internamente, e lei gli darà anche tutta la cor­dia­li­tà, sì, supporto. Mi ha anche sostenuto comprando anche un qualche mio quadro. Era in ogni modo simpatica, lei – dove poteva tranquillamente darsi, rapida, nobile creatura, e mi faceva star bene. Ma lei era anche legata al suo business della moda a Zurigo ed io al mio lavoro della vita. I suoi parenti, tuttavia, hanno visto con preoccupazione il suo affetto per me, perché temevano di perdere la sorella sempre pronta ad aiu­tar­li, come pure la zia da cui ereditare.

Fugacemente, menziono solo una donna appassionata in Ticino, Amalia M., la cui madre era svizzero-tedesca, e chi mi ha corteggiato, e per anni visitato più volte ogni settimana; ma lei era fondamentalmente una duro personaggio egoista, se­pa­ra­ta dal suo brutale uomo che è rimasto, da italiano, in Sud­ame­rica e lei non voleva lasciarlo, divorziando. Quella re­la­zio­ne arrivò al brusco giorno di una fine, quello in cui una signora che conosceva bene lei e me, prevedeva, perché lei ha visto gli obiettivi di questa donna appassionata. Quest’altra donna era una brava artista, già vedova, e soprattutto adeguata nel mio amico Eduard, nel vero amore, anche se dieci anni più vecchia di lui. Abbiamo passato molte ore piacevoli con lei seppur trop­po spesso incupiti dalla sua irrefrenabile gelosia. Aveva molto da fare, con successo, come ritrattista; Clara conquistò gra­dual­mente anche una più profonda comprensione della mia arte e dello spirituale che ci stava dentro. Rimase, fino alla sua morte nel 1932, amica fedele e anche nel testamento ebbe un pensiero per la rotonda mancante, devolvendo per questo con una somma considerevole, una cosa rara per una personalità self made, che spesso sono tormentate dall’invidia. Lei agì nel mio senso, perché anch’io sono alieno dall’invidia.

Dopo la separazione dal mio giovane amico svizzero, a proposito, sposatosi molti anni dopo e avendo un figlio, de­si­de­ra­vo confrontarmi con energia alla mia grande creatività per il Chiaro Mondo, preparato per anni, a parte tutti gli altri grandi dipinti che sono stati eseguiti ed erano già una gran bella gal­le­ria. Dopo tutti gli studi, mi sono messo a lavorare all’in­gran­di­men­to delle figure dei personaggi ed al perfezionamento dei gruppi. Per una delle figure mi è servito un altro ragazzo te­des­co, Walter Sch. da Francoforte, mandatoci in soggiorno dai suoi genitori per suo recupero; era nel cattivo tempo dell’inf­la­zione.

Ci fu nuovo evento nella mia vita emotiva. Nel piccolo ap­par­ta­mento che avevamo dal 1919, ci serviva una giovane tici­nese che viveva fuori, ma non avevo con lei una relazione inte­rio­re, solo che io ero per lei tutto cortesia. Ho composto per lei, a sua richiesta, che piccole letterine da innamorato per i suoi appuntamenti da innamorata. In seguito a considerazioni fa­mi­liari, dopo circa 3 anni e mezzo, ebbe a rinunciare al servizio con noi, al fine di potersi occupare di propri affari. Ques­to mi preoccupava molto, dato che non era facile trovare una persona affidabile, cosa che dopotutto, Rina era stata.

Una sera, nel gennaio del 1923, Rina portò da noi un’altra ragazza e ha detto che questa potrebbe essere disposta a ent­ra­re al nostro servizio. Quando l’ho vista, ho avuto una così pia­ce­vole impressione che eravamo pronti a metterla subito alla prova, anche se aveva solo 16 anni contati. Era ancora molto timida, ma come mi ha detto più tardi, si trovò im­me­dia­ta­men­te in sintonia con i miei quadri. Proveniva da una famiglia ti­ci­nese rigorosamente cattolica, ma sicuramente aveva qual­co­sa di naturale, che mi ha attratto. E sarebbe risultato essere per­manente; presto si sarebbe abituata anche al nostro modo di vivere e al cibo, pur continuando a vivere con i suoi genitori. Rita, è quello il nome con cui ho chiamato Margherita Fenacci, ha visto di giorno in giorno i miei grandi disegni diventare il Chiaro Mondo, e stava bene a casa nostra e tranquillamente si meravigliava, dal momento che nella sua casa paterna l’arte era completamente sconosciuta. Ma lei ne ha tratto piacere, e alla fine fu sorpresa di come ho sacrificato le mia forze, spesso sof­fren­do per continuare e per realizzare. A volte, colto da malore, mi sono sdraiato, preso da un attacco e poi, una volta passato, mi sono rialzato a continuare a lavorare. Ho anche disegnato la 17enne Rita per una testa del Chiaro Mondo.

Alla fine, le grandi figure erano terminate e concluse tras­ferendo le grandi superfici di carta dei cartoni e parzialmente, specialmente le teste e le linee, con matite colorate ed ac­que­rel­li progettati per dare un’immagine distinta. Sì, questi grandi cartoni sono diventati opere di per sé stesse, e in seguito un pittore svizzero si è espresso dicendo che esse danno un’im­pres­sione visibile, come dipinti a vaso a grandezza naturale. La dimensione è in approssimazione solo circa i tre quinti della dimensione «reale», ma funzionano davvero.

Poi sono passato alla versione colorata, e nel 1924, in au­tun­no, alcune grandi parti erano già ben concluse e sono stato in grado di ottenere che quelle tele, con il permesso gentile della nostra amica, signora Clara Wagner, fossero esibite nella sua grande sala d’esposizione, che apparivano dai colori chiari che sembrano al fresco o tempera. Lì ho vissuto il primo gran­de impatto sui visitatori. Tra quelli, c’era anche il parroco cat­to­lico di Minusio, luogo d’origine della nostra Rita. Era così commosso che scrisse: «Quando uscirò, ne uscirò uno mig­lio­re». Ho continuato nel lavoro, una parte alla volta, non li ho mai visti insieme, e ogni parte terminata doveva essere ar­ro­to­lata ed essere messa via perché non ne avevo il posto – la stan­za in cui l’ho creata, la piccola camera da letto, avevo solo un po’di spazio di 1 metro e 20 tra il piede del letto e la parete. Professionisti e laici non si sono abbastanza sorpresi per come come abbia, in queste circostanze, potuto permettermi un po­lit­ti­co di oltre 26 metri di lunghezza e oltre 3 metri di altezza. La passione artistica e non meno la passione della coscienza, queste, contro le mie deboli forze, diventarono un compito da soddisfare, che mi diede l’energia per dominare la materia, quello che lo spirito ha richiesto per rivelare se stesso. E fu.

Nel 1926, fui invitato dalla città di Eisenach per andarci dove erano pronti a costruire per me, il Sacro Castello, nel tem­po dell’umiliazione, un alto grado di spirito, come atto na­zio­nale. Per prima cosa, ci sono andato a presentarne alcune parti. Nel vecchio castello venne costruita una grande parete di leg­no. Con il mio amico Eduard siamo rimasti accolti da ospiti nel Grandhotel, a spese della città. All’inizio tutto è andato molto bene, anche i socialisti ne furono convinti. Silen­zio­sa­men­te, tuttavia, si fomentarono intrighi da parte degli artisti, ma soprattutto da parte degli ebrei che temevano una mia nuova concezione religiosa che potesse essere rivelata con l’annuncio dai dipinti del Chiaro Mondo e persino dal Sacro Castello da conoscere, che potrebbe pertanto «liberare il cristianesimo dalla deperita, vecchia influenza ebraica» come mi ricorda un nominato rappresentante del giudaismo a Eisenach, che lo ha detto espressamente. Poi hanno sventato tutto il progetto.

Ma tutto ciò porterebbe troppo lontano, voglio solo men­zio­nare ancora, che il signor sindaco Dr. Jansen ci aveva messo a disposizione la sua macchina ufficiale di servizio alla ricerca della località più adatta per il Sacro Castello.

Per prima cosa siamo tornati a Locarno, dove il sacerdote don Serafino Danzi mi ha chiesto perché volevo andarmene da Locarno, il cui clima era così confacente alla mia disastrata salute. Dovevo restarci e compire il mio grande lavoro, anche quello di una grande, bella azione educativa. (Farà una gran bella educazione.)

Avevamo già acquisito un terreno nel 1925, nonostante odiosi attacchi. Ma quello che scrivo qui è la mia Via dell’a­mo­re e non dell’odio. Ma quanto riferisco qui l’ho sentito come un tratto cruciale di essa. Abbiamo iniziato nell’autunno del 1926, con la costruzione del Santuario Artis Elisarion, come proprio architetto, solo occasionalmente gentilmente consigliato dall’ ar­chitetto O. Tognola, che praticava e amava la mia pittura.

Una cosa che avevo fatto prima che la costruzione ini­zias­se, fu di fissare una condizione: che Rita ci traslocasse comp­le­ta­mente e vivesse con noi nella nuova abitazione. Ci eravamo avvicinati così tanto che potevo dire: ci amavamo e ci ral­leg­ra­va­mo della reciproca tenerezza, e Rita aveva compiuto 20 anni. Così le nostre vite sono diventate ancora più unite nell’affetto. E c’era una calma interiore ed energia nel conoscerla, sempre per me, prendersi cura di me e di Eduard con sincera volontà. Ha avuto un grande merito anche per il mio lavoro. Non si dov­rebbe dimenticarlo.

Era, la villa, una struttura molto particolare, in una po­si­zione elevata a Minusio, con la vista del Lago Maggiore – come un tempo sognai da ragazzo, quando non esisteva la benché minima prospettiva! La costruzione è stata calcolata al cen­ti­metro per tener conto delle dimensioni dei diversi dipinti che vi dovevano essere locati – quindi, limitato nel mezzo, era come ballare in catene. Dopo la morte di sua madre, Eduard aveva piena disponibilità della propria ricchezza ereditaria, ma nell’in­flazione tedesca si persero somme molto ingenti per i nostri scopi. Le colonne per la costruzione e la costruzione sono state testate nel nostro piccolo appartamento, e un sim­pa­tico Pel­leg­rini italiano ha anche testato l’intonaco in gesso, che mi ricorda i calici a tulipano. Non è stato fino a primavera che l’edificio era pronto per il tetto da posare, e poi per il cortile colonnato: ha dato un peristilio scoperto o un chiostro, che nel tempo è stato coperto da viticci fioriti. Tutto è stato labo­rio­sa­men­te completato e la costruzione è stata inaugurata nell’a­gos­to del 1927.

A settembre, poi, ci siamo permessi un momento di sosta e ricupero con l’escursione di svago in Italia, prima con Rita a Milano – come se fosse un primo viaggio nuziale. Entrambi ci spostammo in Riviera e poi si tornò a Minusio, dove Rita ci voleva nella casa, ormai comune.

Per molto tempo, un anno, abbiamo sperimentato i vi­si­ta­tori, che in specie hanno risposto bene, nonostante i grandi dipinti del Chiaro Mondo non erano ancora come piani­fi­cato nella rotonda, ma appesi, distribuiti in casa: una parte prin­ci­pa­le nella entrata e un’altra parte prin­ci­pale al primo piano, dove la grande «aula» con l’arco del pilastro e la vista – in quel momento nel bellissimo paesaggio del dipinto con i valori di luce; ora dalla costruzione della rotonda (1939) alla «visione nel vecchio Duomo», che hanno riscattato sfida senza ali.

Nella seconda parte dell’estate, escursione con Rita a Lu­cerna, dove conobbe per la prima volta qualcosa della Svizzera; lei poi è tornata a casa, nel frattempo Eduard e io abbiamo sopravvissuto ad un viaggio pazzo dal lago di Ginevra e Annecy alla costa Adriatica ed Abbazia. Nel 1929, viag­giam­mo a Zurigo con Rita, mentre io ero ancora a Wiesbaden per una cura, che presto mi arresi, perché mi sentivo miserabile in quell’aria; e siamo tornati a casa via Badenweiler.

A Wiesbaden, in albergo ho incontrato una ragazza gio­va­ne, bella e comprensiva in reciproca simpatia. A Locarno mi raggiungerà una sua fotografia.

Quarta escursione con Rita nel 1930 via Basilea a Baden­wei­ler, dove, quale ricordo, un bellissimo scatto di Rita e me al sole, davanti ad una fontana. In Friburgo in Brisgovia abbiamo visitato il bellissimo teatro, malgrado Rita capisse poco il te­des­co – era, linguisticamente, molto meno predisposta e dis­po­ni­bile di Gino. Quindi io e Rita eravamo sempre in reciproca fiducia, connessi nell’amore calorosamente naturale. Qualcuno potrebbe chiedersi perché non la feci ufficialmente mia moglie, benché avessimo vissuto insieme per diversi anni. La risposta dovrebbe essere già chiara. Certamente, non perché c’era una mancanza d’amore visto che l’amore esisteva da entrambe le parti. Rita, sempre amorevole come dimostrato in quegli anni, non ha mai sollecitato un matrimonio. Non era nemmeno altezzosità da parte mia, perché era da famiglia semplice, per­ché la sua natura aveva qualcosa di vincente, anche sui visi­ta­tori e gli amici tutti ne hanno avuto un’impressione molto buona. Non è mai stata estenuante, ma sempre fortemente at­tac­ca­ta alla casa dei genitori, da visitarli tutti i giorni. Non l’ho mai impedita, anche se io stesso non ho relazioni più strette al loro clan, dove tutta la mia educazione ha creato una distanza che è rimasta. Ho amato Rita e l’amore vive ancora oggi, dove sarà con me per 20 anni. Ma fondare una famiglia con lei era incredibile e non possibile per più ragioni. Non sono mai stato quello che si usava chiamare un omosessuale, per dire: comun­que più emotivamente rispetto alla sessualità anche se ab­ba­stan­za appassionato di natura. Il mio primo vivace amore ero­ti­co fu una ragazza carina, la Baronessa Agnes. E i miei rap­por­ti d’amore per i ragazzi e i giovani era sempre sopra ogni altra cosa anima-erotica, come nell’antichità ellenica, dove il ra­gaz­zo benedice mentalmente il suo amante ed è stato educato. Ma io provengo da persone nobili ma da genitori che non mi hanno dato una buona salute, inoltre è subentrata molta malattia e la russificazione dell’Estonia ha turbato la mia gioventù, così che ne soffrii presto nella vita e da essa un’altra vita di sofferenza attraverso la testimonianza terrena, quasi colpevole di essere venuto al mondo. D’altra parte, un migliore sentimento ha resistito in me, anche quando amavo la ragazza. E poi si è ag­giun­to il compito spirituale, che esaurirono tutte le mie forze, in modo da non avere una professione, un mestiere per l’ac­qui­si­zione di una futura progenie , soprattutto, attraverso le es­perien­ze e vicende del 1893 e 1896 e le conseguenze del 1899/1900 ai miei nervi cardiaci hanno sofferto che resero semplicemente impossibile la dura lotta dagli impegni quo­ti­diani.

Che abbia potuto e comunque fatto talmente tanto che le persone, anche coloro che videro solo una parte della mia pit­tu­ra senza conoscere la produzione poetica, siano molto stu­pi­te, lo devo, oltre all’energia nativa, al credo in Dio e nella mis­sio­ne che mi ha sempre rafforzato, come anche alle cure del mio amico Eduard, che sin dagli anni decisivi del 1897 fedel­men­te mi ha dedicato. Sicuramente, non sarei stato da lui impedito di sposarmi se ciò fosse stato possibile, o in effetti, coscienzioso.

La mia vita non è ancora conclusa, ma posso affermare che non ho mai trattato Rita in modo diverso, di come se fosse sta­ta la mia compagna legale innamorata, con lealtà e cure che ci sono state, fino ad oggi. Abbiamo fatto pochi viaggi per di­por­to, come i mezzi finanziari ce lo permettevano, a Venezia nel 1932, a Roma nel 1933 e poi, anno dopo anno, a Nervi vicino a Genova, l’ultimo nel 1939, poco prima che scoppiasse la guerra.

Rita non era solo una buona e amorevole cura per me, ma pure per i visitatori stranieri del mio tempio dell’arte, anche se la lingua tedesca la conosceva che molto scarsamente. Grande riconoscimento merita la sua qualità di saper unire tutte le incombenze di una grande casa con quelle della ricezione, spe­cie nei momenti in cui l’amico, il nobile custode, così lo sop­ran­no­minavo ufficialmente nei confronti degli amici, si as­sen­ta­va per le bisogne in città. Altrimenti era lui che si occu­pa­va di ricevere i visitatori, ognuno secondo le loro peculiarità, ed introdurli nella comprensione del sito; salutavo i visitatori solo quando avevano dimostrato di aver compreso. Le abilità lin­gui­stiche erano ovviamente d’aiuto, una volta, nell’aprile del 1930, quasi in contemporanea, cinque le lingue parlate: tedesco, ita­liano, francese, inglese e russo.

Come Rita visse così amorevolmente accanto a me, si pot­rebbe pensare che sarebbe stato facile, disporre della cor­po­reità femminile per l’arte. Ma sarebbe stato difficile, perché era molto timida nel farsi ritrarre e amava dire ah, il corpo fem­mi­ni­le non corrisponde all’armonia di un bel corpo giovanile di maschio e sarebbe stato piuttosto disarmonicamente terreno accanto alle mie ideali creazioni. Piuttosto, il mio stesso corpo sarebbe ancora adesso simile a questo ideale di bellezza.

Allo stesso tempo, devo ricordarlo, anche in Italia non era affatto facile, di trovare, quale modella, una bella femmina. E sto anche pensando ad un disegno di Raffaello, l’artista di successo e del bello, che ha preso un ragazzo per lo studio di una figura di Madonna, sebbene, anche sotto le vesti, si dov­reb­be percepire e riconoscere una figura reale.

Nel 1938, la prospettiva per la costruzione della rotonda per il Chiaro Mondo stava prendendo corpo grazie al cont­ri­bu­to finanziario del governo del Canton Ticino e della Con­fe­de­ra­zio­ne, nell’ambito delle funzioni dell’Ufficio centrale per la creazione di occupazione, per intercessione a Bellinzona di alcuni noti ticinesi: il venerato Don Serafino Danzi, il sindaco di Minusio, il maggiore Merlini, il direttore del seminario, Professor Ferrari, il direttore dell’ente turistico locale, Bolla – e per Berna, il direttore della Banca Cantonale Scherz, senza il quale il mio lavoro di vita non sarebbe probabilmente mai stato completato. Ringrazio questi signori per avermi aiutato grazie alla loro influenza. Comunque, il sussidio pecuniario fu esiguo e da parte nostra abbiamo dovuto fare un serio sacrificio per realizzare quello che avevamo cercato per decenni. Nel 1939 a luglio, il murale poteva venir spostato nella nuova costruzione e si svolse, nella sua continuità finalmente costituita, attorno al piccolo monoptero, portato da sei pilastri. Introdotto dalla piccola stanza corridoio con il genio della vittoria sulla morte e la menzogna, con i tratti di Fino. Me stesso, mi raffigurai steso da morto per questa cripta, sovrastato dalla trasfigurazione. Spero che in questo luogo saranno deposte, in un’urna comune, le mie ceneri e quelle di Eduard, a conclusione e testimonianza di un grande amicizia.

Nell’appendere e sistemare le grandi parti di tela nella rotonda fummo aiutati dal mio giovane amico basilese, il Dott. Hans Dietschy. Qui tengo ad esprimergli il mio ricordo. L’ho conosciuto quando aveva circa 19 anni ed ancora da studente. È venuto da me come erede del suo defunto fratello gemello Ru­dolf, che dapprima mi accompagnò pieno di commozione. Hans D. si è sempre più maturato nelle mie parole, nel pen­sie­ro spirituale del Clarismo ed il concetto «trialistico» dei mondi, quelli dell’essere proprio, del caos ed il Chiaro Mondo. Ha pure preso sempre più confidenza nel mondo del sacro Eros, quale effetto divino e riflesso nella mia grande arte. Così potei con­si­de­rare Nino, come l’ho chiamato, da fedele sodale.

Nell’estate del 1940, durante la Seconda Grande Guerra, ebbi la sorpresa e particolare di gioia della visita di una ra­gaz­za a cui piacquero e visse spiritualmente i miei ​​luoghi: Nelly Lenz.

Già alla prima visita, la sua comprensione si risvegliò tal­mente, che Nelly scrisse: «Stavo cercando un’opera d’arte e trovai un miracolo: il credo nel volo sublime dell’anima u­ma­na». Era detto in modo così profondo e bello, che il successivo visitatore, il religioso sacerdote cattolico e professore dottor Frei ne fu impressionato. Anche lui ha dato il sua contributo di profonda espressione, con un grazie al creatore dell’opera.

In Dio, avendolo riconosciuto in amicizia quale guida spi­ri­tua­le e connessione di anime, per cui ho sempre tentato: di legare tra di loro le persone; vale a dire, mi piacerebbe vedere i miei amici uniti. Così ho chiesto all’amico Nino di dare a Nelly un saluto a casa sua, se vi fosse passato. Andatoci, ha visto e si sono amati. E ci sono diventati, da alcune settimane, un unico amore e una coppia di sposi. Così, il Santuario Artis divenne per la prima volta il conquistatore nuziale del sacro Eros.

Devo ancora discettare del decano e sincero culto, per commemorarne un fedele cittadino svizzero che dal 1929 si è ripetutamente impegnato per il lavoro della mia vita, quello che lo ha reso felice e lo ha svolto con amore, amicizia che non fu certamente compito facile e gratificante. È il professor Dott. Karl Matter di Aarau, che una volta condusse persino un grup­po di studenti a visitarmi, come avevo desiderato sin dall’i­ni­zio. Il mio mondo era probabilmente ancora troppo nuovo e per molti di troppa levatura. La connessione di autentica libertà interiore con un purificato senso per la bellezza e la nobiltà rimasero un mistero per molti e l’amico compiva due volte all’anno un pellegrinaggio verso il Santuario e la mia persona.

Quanto ci vorrà per far uscire dall’in­can­te­simo l’Europa, risvegliandosi, che soggioga la nobile gioia di vivere in un sarcofago della tradizione straniera? Non dissimile dall’ico­noc­la­stia del Maomettanismo. Il Rinascimento stava cercando di distaccarsene, ma solo a metà strada, e quella pura coscienza non sorse ancora, che solo poteva provenire da libera risposta di un’anima nei confronti di un Dio cui si sente destinata non come «Creatura», ma «Essere Singolo», il cui ego cerca adem­pi­mento nel Tu e nel Noi.

Ho cercato di farlo nella mia arte: una pura, chiara cos­cien­za nel piacere della bellezza, dov’è rivelato nel mondo del Caos guardando in un altro divino mondo: nel Chiaro Mondo. E ho potuto, nella mia casa, sperimentare l’arte per 5 anni, in quanti hanno soffocato il desiderio, l’hanno seppellito e di fron­te al mio lavoro si sentirono felici, come redenti, come ri­sorti – se non altro per pochi istanti.

La mancanza di coraggio, per non dire la codardia, è il grande ostacolo, per il recupero altrimenti quasi sventato. Più che un dottore, sì psichiatra, mi ha detto: questa istituzione non è semplicemente un Santuario Artis, ma anche un Sana­to­rium Animae – un nosocomio dell’anima. Protestanti e cat­to­lici, sì, gli ebrei l’hanno provato anche loro, anche quelli che si ritengono atei. Molte donne e ragazze si sentirono felici, men­tal­mente purificate.

E qui devo dire, quale tragedia della mia vita: proprio gli omosessuali – perché nell’armonia equilibrata della super sessualità del mio mondo creativo, quelli che hanno orecchie per cui «suonano le campane» pensano, o vogliono pensarne male, per ripeterlo - solo questi hanno reagito meno posi­ti­va­men­te. Questo tipo di persone nelle loro estreme tendenze erano spesso i miei nemici segreti, quindi che non mi piaceva, pertanto, vederli in mia compagnia. Solitamente cercano solo il loro tipo o caso sessuale particolare – decisamente non ar­tis­ti­co, anche se sono critici letterari o dell’arte; e, come tali, sono costantemente abituati ad un aspetto morboso e mascherato nei propri sentimenti- Non sicuri dei loro sentimenti, la mia natura chiara e non vincolata è vista da loro estranea nella crea­zio­ne, hanno paura di essere svelati e visti per la loro uni­la­te­ra­li­tà. Ne conoscevo uno a Roma, che si faceva vedere in pubblico con donnacce dubbiose, pur di conquistarsi un alibi libero da colpe. Apparizioni tristi della nostra cultura cristiana, che spesso rende gli uomini bugiardi dopo averli tarpati, ri­du­cendoli a creature.

Il mio punto di vista era quello di un sano, indisturbato sviluppo della gioventù maschile, e ne ho avuto esperienza. Gino è ora felicemente sposato e padre, così come Jean. Per quanto riguarda la vita amorosa delle persone, l’unica cosa ragionevole e sociale è l’essere favorevoli alla conoscenza e al recupero delle tendenze naturalmente predisposte speci­fi­ca­mente nei singoli individui, proprio non volerne fare un egoista bizzarro e riprovevole. Ogni violenza porta alla menzogna ed a sviluppo socialmente malsano. E lì ci si trova anche il fatto delle tendenze amorose naturali del giovane, che non è sem­pli­ce­mente un manichino da essere schiacciato a pianta ombrosa in virtù di una apparente morale. Significativo per i bambini e giovani è il loro sviluppo e pertanto anche quello sessuale, soprattutto dal 14. al 19. anno di età. Nella nostra Europa in quegli anni, un matrimonio non entra manco lontanamente in considerazione, e tuttavia, nella tarda adolescenza e pubertà, di solito c’è un desiderio vivace di amore e rapporti amorosi, che non possono essere affrontati e liquidati con vuote e banali frasi e facili entusiasmi; né come non si possono non con­si­de­rare le regole mestruali iniziali della ragazza – solo che queste, perché creanti malessere e dolore e non il piacere eccitante, vengono tollerate … o lo devono essere per necessità; mentre il piacevole della sensazione nella natura del maschio e della sua espressione vengono colpevolizzati in una cultura erronea, sì, persino messe alla berlina, perché non producono piccole crea­turine, ma esuberanza vitale.

Questo nell’antichità del grande popolo dell’Ellade, gente di cultura, come anche ben inteso dai popoli primitivi, non come decadenza, ma come immutabile forza vitale; per l’Ellade parlano esplicitamente, secondo le ricerche di Hiller von Gärt­rin­gen, le prime iscrizioni a Thera. Oggigiorno, il rapporto con il corpo e le sue gioie della Nuova Ellade vien represso con la menzogna ed una pseudo-religiosità, sì, come un artista di Atene mi disse: erano considerati peccatori perché non dipin­ge­vano esclusivamente l’inanimato secondo i dettami di Bi­san­zio; e un ragazzo in un commercio d’arte in Atene mi ha poi spiegato, sia un peccato fotografare, anche unicamente, le statue e venderne le fotografie. E questo nell’Ellade! Lì ri­suo­na, accanto alla lunga tradizione ostile all’arte figurativa os­ten­ta­ta dall’Islam, anche la paura del clero: l’impulso indigeno, forse ancora esistente, alla visione plastica degli antichi dei – gli dei delle menzogne, come mi hanno detto giovani scolari greci, sorpreso seduto, e da loro circondato, a fissare in schizzi un Apollo – questo essere della «paganità» potrebbe di nuovo svegliarsi.

Il valido e normale ragazzo che dovrà affrontare la vita, vuole ammirare un eroe o ancora un uomo maturo, a cui vuol prodigare ammirazione e venerazione ed amore. Il sospetto di tali relazioni è insensato e nato dall’ebraismo antico, che ha così enfatizzato e promosso la mera sessualità. Divenne così necessario nelle nostre nazioni europee, soggiogate dallo spirito ebraico, di denunciare il naturale a scapito del tutto sociale; perché ciò che non può essere esibito in cordialità, diventa un meretricio e respinto in quanto contaminazione.

E come devianti furono considerati che gli omosessuali unilaterali, soprattutto per coloro che poca comprensione dimostrano al bambino, perché per loro è ancora troppo «fem­mina», solo come cultura indifferente e conosciuto e mezzo tollerato nell’ombra. Con ciò ne risulta alcuna valutazione socialmente favorevole di fatti naturali e fonti di vita. Ho vo­lu­to portarvi luce, nella convinzione consapevole del vero Dio e leader spirituale che non è solamente un «pre­des­ti­na­tore» di «creature» marionette per l’uno o l’altro, a onore o disonore, per «mostrare l’ira», come quello che ci è stato finora in­seg­nato.

Mi ha fatto particolarmente piacere che c’erano anche tante donne dalla vivace comprensione della mia arte e che così hanno rivelato il desiderio del maschio nella sua cordialità e armonia della vita con la suo naturale bellezza, contribuito non solo da una falsa maschilità circense. Certamente vi sono uomini che hanno un attaccamento brutale ed esclusivamente impostato ad un sesso complementare, ma che una ragazza carina, vestita, sia loro blanda e motivo di scontento, come come ho potuto constatare; ma non ne sono la maggioranza, e non è un motivo sociale, né un obiettivo culturale, di farne, di queste predisposizioni alla brutalità, delle strutture di so­li­da­rie­tà che dovrebbero essere invece espressamente create da ciascuno in supporto a tendenze al sentimento più tenero, più erotico che sessuale, che in qualche modo vengono invece disapprovate. Matrimoni felici e «ben nata» progenie, questi non ne sono il risultato.

Diverse donne e uomini si sono presentati felici e ar­ric­chi­ti dal mio lavoro, come spiegamento della loro vita sen­ti­men­tale, ed hanno dichiarato il mio «Chiaro Mondo» una fonte di risorse e un incentivo per un aumento degli effetti sulla vita; ed erano proprio quelli ai quali erano ancora ignoti i miei testi da annunciatore della Chiara Novella.

Eppure, la vera essenza della mia vita risiede in essa, come Dio me l’ha fatto vivere nell’amore e nel dolore, quale via verso di Lui.

 

Traduzione Bruno Ferrini