L’anima di Tiziano, la psicologia del Rinascimento, capitolo VI

Il Tiziano e la vita

Prima di Giorgione l’uomo nell’arte veneziana non pos­sie­deva pelle, ma un coriaceo involucro; fu lui a riprodurne la molle tensione e la viva carne, con il Tiziano che gli apporta la sua preferenza compiendo così l’arte pittorica. La pelle che dipinge è come se fosse irrorata d’autentico sangue, non solo che tende ed arrossisce, ma una mano ne deve sentire, scor­ren­doci sopra, il calore. Ogni movimento dell’animo che fa fluire il sangue, più o meno rapidamente, si trasferisce, con ogni pul­sa­zio­ne, nel flessibile tessuto e forma l’istantaneo disegno degli arti, facendo vibrare, trasmesso dai nervi, ogni più minuta onda, ogni fibra muscolare della pelle, la quale reagisce e la mano ne accarezza, come l’occhio, scoprendo i segreti che muo­vono l’animo. Quanto l’occhio può superficialmente scop­rire dai tratti del viso, il Tiziano lo vide in ogni punto del corpo.

Anche se i giocosi Eroti in «Festa degli amorini» (1518) non si rendono conto della loro natura, la loro gioia di vivere si dif­fonde in tutto il loro corpicino; anche in «Tre età dell’uomo» (1512–1513) i due bambini dormienti mostrano una paffutezza compatta e cruda: qui le paure non hanno ancora modo di agire sulle loro anime. La bambina accanto, mollemente, bionda, piena di vita, la pelle tranquilla, contenta del momento, non vuol altro che di poter giocare al flauto, mirando gli occhi del pastore in un desiderio ancora a lei ignoto. Lui invece, robusto come lei, risente più di lei i tormenti della vita; il suo amore vuole possedere, le belle e molli forme del suo corpo abituato all’aria aperta, corpo abbronzato al sole si inarca nel desiderio, seppur incosciamente, ed il suo sguardo nostalgico mira ad una felicità che gli è così vicina. Impossibile rappresentare meglio il primo amore, dove desiderio e voler essere desiderati sono quasi la stessa cosa, dove l’istante di soave presenza è tutto e niente il futuro – l’Eros che non persegue alcun scopo, uni­ca­men­te unirsi con se stesso – impossibile più mera­vig­lio­sa­men­te, il sublime e sacro canto dell’esistenza: il mondo completato in bellezza, forza e piacere.

Questo è anche quanto eleva «Amor sacro e amor profano» (1512–13) a uno delle più profonde opere d’arte. Questa de­no­mi­na­zione arbitraria è più significativa di quella che non dica la «Venere, che convince all’amore Medea»; semplice mente vederne uno studio che rappresenta lo stesso modello una volta ignudo, una volta vestito, è limitativo. D’altro canto, il grande mondo fa breccia nel cuore del pittore in quanto colore. Lo sguardo del pittore è dapprima preso da quanto rap­pre­sen­ta­bile e stimolato pittoricamente, dai contrasti, dalle transizioni e le sonorità cromatiche e delle forme, degli esseri umani e del paesaggio. Ma per la grande personalità, questa realtà do­mi­nata, questa do­mi­nata ricchezza di forme diventa che una scala di valori e mezzi espressivi tramite i quali il genio rendono carne il ricco mondo interiore dei suoi sentimenti. La grande maturità della sua tecnica gli permette che l’«azione» fintanto non viva nell’artista la volontà di autoesprimersi e questa è in verità la propria «opera», non la somma esteriore degli studi, progetti e lavori. Unicamente la nota personale di quanto di proprio, o trasferito all’osservatore, sentito quali sentimenti, speranze e lotte distingue l’artista dal virtuoso – Maestro della pittura. E oggigiorno domina nell’arte e nel giudizio artistico la maestria e la sofisticaggine che ritiene di poter ricalcolare ogni colpo di pennello ed ogni macchia di colore, ma che decade in isterico ciarlare allorquando le superfici colorate scompaiono in quanto tali e fanno trasparire una unitaria forma di vita. Questo diventa il «contenuto» quale «letteratura» – ed è per­tan­to vita individuale dai toni mistici. Naturalmente, la de­no­minazione che viene assegnata all’opera d’arte è legata al caso, anche nella situazione l’opera sia stata ordinata, e pertanto predeterminata in quanto contenuto e denominazione, ma il suo valore artistico e come opera d’arte dipende da quanto il maestro sia riuscito a rivivere la leggenda. Unicamente così l’avvenimento diventa elevata, da una comune mortalità del confuso anedottico regno della storia, a chiarezza pro­pria­men­te del mito. Unicamente questo tratto di primitiva reli­gio­sità al mito, non le arzigogolate storicizzazioni, permise al maestro figurativo del Rinascimento di rifarsi all’antichità, meglio all’Ellenismo, dove sgorgò vita discinta, tal acqua in vasche di marmo ai cui bordi in paesaggi estivi, all’ombra di piante uber­tose, acoltate da azzurrognoli e lontani monti, la celestiale gioia dell’amore predica alla terrena metà «Amor sacro e amor profano». La fredda maschera di un ritegno alla moda e la sacra disimpegnata libertà del personale sentire, la vuota, dallo sfarzo imprigionata dignità, e la desiderosa vita della bellezza, l’ipocrita struscio delle vesti ed il profumo di una molle nudità, malformazione e natura! Come leggera e viva, scorre la linea di questo corpo nudo, come sicuro e grazioso il braccio destro, come dalle pieghe del rosso mantello, coraggioso e nobile quel­lo di sinistra in alto tiene la coppa delle offerte dai fiam­meg­gian­ti sentimenti. Lo scuro occhio luminoso di convinzione e convincente dall’intimo sguardo, l’atteggiamento equilibrato, la molle rotondità del tronco, l’aggrovigliamento senza sforzo delle gambe proclama la misura inalienabile di un’anima che sotto le spoglie quasi divine, gioisce quale sua espressione. Ed ora l’elegante dama!, le è cosciente di cosa conti, incontra lo sguardo inquirente del mondo e cerca di nascondere i sen­ti­men­ti, ai quali non può dissentire e segretamente sfuggono, come le rosse maniche dal loro vestito; la sua mano protegge la lira, quasi ne paventasse gli accordi ad accompagnamento delle belle parole della divinità, dei lieti conversari degli eroti. Nobil­donna – non avete visto le immagini della forza giovanile e dell’innamoramento che adornano i marmorei bordi della fontana? I ragazzi, che apprezza i colpi di verga quasi fossero scherzi d’amore? Pensavate fossero il sepolcro di un estinto mondo pagano? Guardate! La pietra che vi sostiene vive nella sua indistruttibile forza della bellezza. Oggi, al sentire della sua voce, lasciate libero il vostro cuore …

Dai sogni di un mito, riproposta nella realtà, più corposa, anche se più labile nel tempo, l’inno alla bellezza di «Venere di Urbino» (1527) nella quale vi si vide contessa Eleonora. E’ lo stesso tipo, con tanto di sovrana autocoscienza di un corpo mollemente supino, nella libera posizione della mano sinistra, nella posizione del braccio destro appoggiato. Un momento tranquillo e compiaciuto che ricercano nell’osservatore calda approvazione, molto di più che per quanto si veda nella vicina ricca sala con i preziosi bauli, i pesanti drappi, molto più deg­na­mente umana e sublime – viva, movente forma che risponde con i sentimenti di un corpo non falsificato. Qui, la sensualità è passata dall’animalesco all’umano, da oscure pulsioni a chiara gioia, non più una necessità ma una fortuna, non una pena ma una ricchezza, non un fastidio ma un sacro ardore. Accanto a questa creatura o alla «Danae» di Napoli (1545), quanto freddi ed indifferenti lasciano le attrazioni dei «Nu au Salon» a fronte di questa esaltazione della gioia di darsi ricevendo amore. Il capo reclinato, lo sguardo in avanti, gli occhi grandi, nelle lab­bra, nello sporgere l’avambraccio destro e la pigra caduta della mano, il corpo ondeggiante nei cuscini, nella libera calma dei fianchi e delle gambe, vi si trova, dalla testa ai piedi, un sorri­dente senso d’amore e dolce aspettativa. Questa non è una puttana, malgrado la pioggia d’oro o le riproduzioni da mezzani di Madrid, Pietroburgo o Vienna: qui un innocente inno alla spiritualità ed al mito, l’unione del bello al divino. Vergini di lignaggio reale, che ricordano l’unificante e costruttiva potenza dell’Eros.

Qui come nel «Ganimede», forse solamente una copia ma che porta gli attributi di un’audace composizione ed atmosfera, un vero capolavoro, respirano antico spirito e seppur senza lo statuario che il più delle volte è la sola cosa che vien vista, tan­to siamo indirizzati dai gusti verso le opere plastiche. Ma con loro, è giunto anche il loro spirito commisurato a quello del Tiziano con «Danae» e «Ganimede», anche se la prima – in oro zecchino – sebbene più di Ovidio-romana che Pindarico-el­le­ni­ca; si possono dipinger più svariati personaggi che parlano per­fettamente il greco senza peraltro possedere alcunché di au­ten­ticamente greco, dei pseudoclassici, se non posseggono quella calda e divina umanità.

In «Venere e Adone» (1554) l’Adone non ha nulla di El­le­ni­co, ma rappresenta l’opposto dell’eternamente maschile e dell’eternamente femminile ma è catturato un vivente punto focale con un opposto non in alcun caso assoluto, con il fem­mi­ni­le estremizzato a possente forza, se non ingiuriato, con Eros il dolce che dorme sullo sfondo di una foresta. La violenza della passione, dell’insoddisfatta sete di piacere, la violenza di chi vuol ricevere amore – un uragano di anima umana avvinghia con le braccia di Venere lo sfuggente Adonis, si erge con il suo corpo possente, tende le sue coscie, perde quasi l’equilibrio, lo attira distogliendolo dalla caccia ed appare essere che una parte del suo corpo e del suo essere.

Il Tiziano si è talmente appropriato del mito, consono al suo stato d’animo, dimostrandone la vitalità, non da man­te­ner­ne con la precisione letterale, ma risvegliandola a nuove forme di nuove realtà. In questo senso sono da misurare le «poesie» del Tiziano, tanto apprezzate dai suoi ammiratori e fi­nan­zia­to­ri, il «Baccanale» (1520) e «Bacco e Arianna» (1523) acquisiti da Alfonso di Ferrara e goduti da Filippo II, «Diana e Atteon» (1559), «Callisto» (1559), «Europa» (1560), «Antiope» (1560), «Andromeda» (1562). Anche se «Festa degli amorini» è la poetica descrizione di un dipinto inventato sulla scorta di Filo­stra­to, in una ridda di Eroti, ma che in «Baccanale» trova drammatica descrizione con pochi gruppi, in nuda complicità di giovani all’ombra degli alberi: le due ragazze giacenti nel prato, l’allegria dei danzatori e l’estasi della luminosa Baccante ripresa nel sonno.

In «Bacco e Arianna» la mitologia si condensa nella figura di Bacco nel suo slancio su Arianna, dal suo carro. Cos’altro vuol’essere rappresentato se non il piacere amoroso, e chi meg­lio di Bacco ed i suoi accoliti lo poteva rappresentare abituati com’erano di vincere con la danza e la gioia?. Nella leggenda di «Diana e Atteone» era data la cornice nella quale di poteva sviluppare un accordo di base in molteplici sfumature: lo spa­ven­to della sorpresa ed il piacere dell’ammirazione sensuale, impressioni contrastanti che potevano reciprocamente sos­te­ner­si se non creare quel «senso di vergogna». Diana è spia­ce­vo­lmen­te sorpresa dell’intruso, ma una silenziosa curiosità si insinua quando invece la ragazza alla fontana guarda com­pia­ciu­ta Atteone con leggera paura che ne incrementa l’at­teg­gia­men­to del corpo rannicchiato.

Analogamente riconoscente per lo svolgimento delle bel­lez­ze è nuovamente Diana con le sue Ninfe della povera illusa «Callisto» che crede di dar inutilmente seguito alle avances di Zeus sotto le sue spoglie.

In coraggiosa brevità si presenta «Europa» che dimostra di non disdegnare il toro dell’Olimpo, quale fauno giove si avvicina ad «Antiope» nel sonno, e qui il caldo paesaggio col­li­na­re agisce come un idillio al gioielllo del corpo nudo che vibra luminoso al bordo del bosco.

Il Tiziano ha spesso dipinto il corpo nudo, nella sua in­te­rez­za quale Bambin Gesù, quale Cristo risorto (1513), quale San Sebastiano, da Adamo ed Eva (1560–65), da Venus in riposo, da Amorino, parzialente con collo e braccia – come spesso d’alt­ro­nde – o nel petto di «Flora» (1515), della penitente Mad­dalena (1530), di Maria (Maddalena?) nel pentapolittico di Brescia, e ripetutamente belle donne, sia nello scafo della Ve­ne­re sorgente dal mare (1522), della «Ve­ne­re con lo specchio» (1565), nelle coscie degli angeli (nelle «Annunciazioni», nel quadro di Tobiolo), delle Baccanti, di Santa Margherita (1550 fino al 52), Atteone, nel quadro di San Nicola. E sempre ap­por­ta, espresso nelle immagini, nella finezza e tenerezza o forza e passione, il proprio convincimento che il più bello, verace compito della sua forza creativa è rappresentato dal vivo, caldo corpo che sente in quanto fonte, confine e scopo della vita umana. Ma questo convincimento è stato portato, dalla rist­ret­tez­za di un piacere soggettivo, a raggiungere le alte vette di uno scopo della vita? Ha saputo rendere disponibile a tutti questo luminoso ideale, che si era acceso in lui? Ha riconosciuto e confessato, in questa viva bellezza, l’operato divino? Il piacere dei sensi, l’ha tramutato in grande religiosità?

No.

* * *

No: troppo equivoco nella sua pittura chiesastica, tremolante nei sentimenti; no: anche il Tiziano, malgrado tutta la sua forza creativa, non è riuscito a creare di nuovo una forma di vita; no: anche in lui, forse il più grande genio della pittura, la pittura non ha raggiunto la più alta vetta ed essere sa­cer­do­tes­sa – è rimasta legata ai legami del suo tempo, serva della pre­do­minante mezza misura, quanto essa sia profonda e quasi insuperabile, lo dimostra il caso del Tiziano. Certamente, la sua forza creatrice, suddivisa, appare ricca e grande come la luce refratta colorata e variegata; certamente, l’oggi attuale non molto più in avanti di quanto fosse il Tiziano tre secoli orsono, deve molto a lui. Ma non può d’altronde sfuggire a nessuno che dietro a questo splendore di opere di un artista si nasconda un dolore che un faustiano spirito in lotta cerca di narcotizzare, nelle profondità e bellezza delle sue figure. In­dub­bia­mente, c’è qualche cosa di ciò nei suoi autoritratti; ma sarebbe superficiale cercare in quest’ultimi il dolore di non aver potuto raggiungere l’ambita perfezione pittorica. Potrà anche essere stato insoddisfatto e pure alla ricerca del nuovo facendone dei tentativi, ma questo accadde solamente in quan­to un modo di dipingere non può, naturalmente, superare un conflitto interiore e pertanto nessuna opera poteva dargli com­ple­tamente soddisfazione. Altrettanto di Michelangelo che ten­tennava avanti ed indietro tra pittura e scultura e nella poesia, semplicemente in quanto le sue capacità, quali che fossero d’eccellenza, non riusciva a realizzarle tecnicamente, lo sa­reb­bero state vinte che grazie ad una sovranità di carattere etico: annullare la contrapposizione tra la sua natura di omosessuale e la medioevale visione del mondo e, partendo da se stesso, quale punto centrale di riferimento, annunciare nuove regole di vita. Meno difficoltà aveva il Tiziano, ma a lui mancarono l’intima unità, l’intima soddisfazione, dalle quali sorgono i suoi risultati tecnico-pittorici – mai e poi mai il contrario.

Il senso del colore e la felicità delle forme del Tiziano sarebbeo stati il mezzo per la grande rivelazione, ma ci resta debitore dell’ultimo colpo d’ala, ci porta in alto, ma il suo volo d’Icaro fallisce proprio vicinissimo alla meta – sia un caso o meno, che tutte le aleggianti figure non riescano, anzi per lo più sembrano cadere, contrariamente ad un Correggio che nella sua unicità dalla naturale leggerezza del volo dei suoi geni, liberi dalle leggi di gravità. Il Tiziano non ha trovato il nuovo che si era cercato per sé e per l’umanità in quanto ancor troppo radicato nel passato – troppo anche se non compitamente: questa, la sua tragedia personale.

Riesce ad afferrare nei loro significati le leggende bibliche, si! – vive in loro quando le racconta, ma gli era estranea la re­li­gio­sità medioevale come quella che si deduce dalle immagini di un Fra Angelico da Fiesole: lo confessano le proprie opere.

La maggioranza dei dipinti del Tiziano ha avuto origine quale devozionali per chiese e cappelle, ma riflettono ve­ra­men­te la religione medioevale? I fatti di cronaca da commemorare vengono trascurati in favore del propriamente umano, forse che un sano senso da artista, sì, questo sano istinto del fi­gu­ra­tivo lo doveva tener lontano da passione e rapimento, i due poli della visione del mondo cristiana, il cui asse è rappresentato dalla imbarazzante importanza data a fatti unici e svoltesi nell’ Oriente. Che questi si ritrovino, rinnovati e meglio della loro nomea, nella vita dell’uomo, e siano argomento di vera arte, il Tiziano lo dimostra in modo lusinghiero e degno nei numerosi gruppi di Madre con bambino, solitari o nella cerchia di santi. Qui si incontra gustosa semplicità e composta allegria, ori­gi­na­rie­tà e chiarezza d’animo e tanto più quanto il Tiziano è giovine d’età, quanto più risuonano in lui i ricordi a Giovanni Bellini, anche esternamente nella composizione, nella scelta di mag­ni­fici tappeti quali sfondi, interiormente consoni alla semplicità dell’evento. Ma tanto più la vita agisce sul Tiziano, con alt­ret­tan­ta forza si allontana dalla Venezia di Raffaello, cercando nuove oscillanti atmosfere rappresentandole, grazie alla sua tecnica innovativa, con modalità raffinate e smorzate.

L’evoluzione della pittura del Tiziano racconta una storia intima. Se l’ottantenne Giovanni Bellini sapeva ancor dipingere chiaramente e accuratamente, non è sicuramente stata de­bo­lez­za da vecchiaia dell’arzillo Tiziano se questi rinuncia ai suoi apporti pieni di intensità e movimento, ma piuttosto per pro­pria tensione con un’anima in tale ricerca. Se il Tiziano è giunto ad una psicologia della luce, nella quale le atmosfere metereologiche riprendono quelle dell’animo, facendone (in «Lorenzo»), un Rembrandt prima di Rembrandt – come mai, da novantenne, dipinge con cotanto gloriosa luminosità, la raggiante scena «Ninfa e Pastore» (1566–70)? Era l’argomento che ne richiedeva l’impiego? Molto di più! I suoi sentimenti ritrovavano nel soggetto le instancabili gioiose pulsioni sen­sua­li, ma sofferenze e tormenti le avevano pro­gres­si­va­mente pre­cipi­tate nelle ombre del mondo, con ombre che si sov­rap­po­ne­vano al suo animo, non appena queste si opponevano alla sua solare fiducia terrena, scuotendole con forza. E come nelle scene di martirio, non espresse altro che il suo malcontento per il caos al quale anche egli stesso non poteva sfuggire, al­tret­tan­to, nelle scene di rapimento mistico, il Tiziano più che un mor­bo­so sentimento, per il quale non aveva comprensione, ne fa qualche cosa di artificioso, posticcio e falso. Questo, par­ti­co­lar­mente nel dipinto del Doge Grimani (1555), che in grande decoro s’inginocchia davanti al «Credo» in una spoglia e muta stanza di donna. Al­tret­tan­to nella «La discesa di Antartico Santo Fantasma», dove persino la luce, altrimenti una delle sue forze, vien ridotta a banali e convenzionali ciuffi di raggi. Al­tret­tan­to nella «Trasfigurazione» (1565) che lascia volutamente il viso di Cristo nell’ombra (!) e nei suoi gesti, e in quelli di Elia altrettanto di quelli di Mosè, esprimendo l’imbarazzo dell’ar­tis­ta: tacque il suo genio. Dove produce grandi cose, come nell’ «Assunta», mostra il suo pauroso coinvolgimento (per Maria) ed un distaccato osservare della vicenda (Giovanni) – ma, sicu­ramente, nessuna estasi ultraterrena.

E il Tiziano ha creato uno dei più bei ritratti di Cristo. Non in scene di dolore o di morte, nemmeno nella maestosità dell’ «Ultima cena» (1564) – come resta indietro rispetto a Leo­nar­do, quasi un Veronese! – l’«Cena in Emmaus» (1555) vuoto e freddo: anche se in «Monete di pegno» ne ha presentato me­ra­vig­liosamente la modestia e la potenza.

Davvero, nella semifigura di Cristo della Pitti (1514) vien risaltata la sovrana calma di una comprensione del mondo, che ama e benedice come detto nella vecchia canzone:

Buon Gesù. Dominatore dei mondi …

Quanto lontano questo Cristo dallo scuro, duro, deformato giudice dei mondi delle rappresentazioni di Bisanzio, quanto dissimile dalla visione ascetica e medioevale cristiana e più vicino alla pacata figura che esplose in sacra ira allorquando incontrò l’onestà dei caldi sentimenti diventata cattiveria, gius­tizia diventata avidità. Così lo dipinge il Tiziano, così l’ha scol­pito Michelangelo in Santa Maria sopra Minerva, ma quest’im­magine, rimasta di sasso e legno, non è diventata vivo sen­ti­men­to, sebben artisti ne abbiano tentato di aprirne l’uscio: anche il genio più concreto nelle sue creazioni è pur sempre nato mille anni troppo presto. Questo è anche un metro, forse il più esatto, per la misura della grandezza – quante ge­ne­ra­zio­ni siano necessarie per «portare sabbia al mare» della massa prima che le sue idee vengano comunemente accettate e rea­liz­zate. Il Tiziano, in questa immagine di Cristo, ha precorso di molto il futuro, ma fu un momento che nulla portò di fruttuoso e decisivo. Forse lui stesso non si è reso conto della portata di questa opera, forse è impazzito: ad ogni modo così vero e scon­certante che il pittore, le cui prima ed ultima opera furono un Cristo morto, che nella sua vita dipinse i più grandi altari, non fu un pittore religioso né in senso chiesastico-medioevale, né in senso natural-pagano, al massimo in un senso am­bi­gua­men­te moderno.

Nel suo trentancinquesimo anno d’età, il Tiziano deve aver raggiunto una grandezza interiore; forse fu la peste che si prese Giorgione e sospinto lui a Padova, l’occasione per fare i conti, in tutta chiarezza, con la vita. Dapprima disegnerà «Il trionfo della fede» – contrapponendolo al «Trionfo di Cesare» del Mantegna; ma venne trasportato ancor più in alto, verso una maturità etica: nelle sue successive opere viene alla luce un qualche cosa di nuovo. In «Tre età dell'uomo», in «Amor sacro e profano», nelle figure di Cristo e «Monete di pegno», come nella trevisana «Annunciazione» vive questa massima religione della bellezza, onestà, personalità, il felice messaggio dell’u­ma­nità di Dio e la santità terrena. Qui gli spiriti olimpico e cris­tiano sono un tutt’uno, qui l’uomo a somiglianza di Dio e Dio a somiglianza dell’uomo; il Dio divenuto «vero uomo», libera l’umanità dal giogo del peccato, dal disconoscimento divino, dal di lei degrado ridonandole il precluso diritto a godersi pie­na­mente la vita. In queste opere il Medioevo è superato; ma deve aver avuto paura della sua somiglianza divina. Giorgione e Palma, qui improvvisamente apparsi diventati tutt’uno, le due anime del Tiziano si dissociano, la corrente del suo agire scorre in due alvei diversi. Gli anni di queste somme opere possono essere cancellate dall’esistenza del Tiziano come dalla sua vita, senza che le opere tradive ne vengano influenzate. Con l’«As­sun­ta» e le «Festa degli amorini» che fecero la storia dell’arte, il Tiziano della cultura etica è morto: la sua pittura chiesastica diventa spiritualmente sempre più ricca, movimentata, psi­co­lo­gi­ca­mente approfondita, dando più peso alla sovranità del suo pennello per l’arte della luce ed il colore; le «poesie» assumono sembianze più dure, esuberanti, accecanti e mantengono l’e­nor­me­mente gloriosa gioia dei sensi – si indeboliscono uni­ca­mente lo smalto della sua mente, l’alito religioso. Si percepisce come il suo cuore eternamente giovane si aggrappi a questa reale bellezza «in piacere d’amore» e ripresenta il suo precoce e fragile spirito nei «Geronimo» la «contesa con Dio» – ma questo è il dio della sofferenza e della morte, della colpa e del castigo, perso il Dio dell’amore.

Forse i tempi non erano ancora maturi. Dove la precoce «rinascita» della bellezza e della felicità terrene si arrestò, do­ve­va iniziare una dura lotta, una «trasformazione» dello spi­ri­to; esternamente un contrasto – democratico, strettamente morale, pignolo con le parole, sobrio – la Riforma protestante, forse una seconda prorompente fase del Rinascimento. Quanto ci apparve come l’inizio di un grande giorno, risultò essere che il lampo premonitore di una stella mattutina. Il Medioevo continuò nelle sue oscurità fatte di caotiche selvaggie, atroci, smisurati sensi, lo spirito della rigidità, asservimento, umi­lia­zio­ne, e lentamente iniziarono le prime vibrazioni di luce a penetrare l’oscurità, modestamente e lentamente iniziò la riscoperta dell’uomo. Ancor oggi il sole è sotto l’orizzonte, il giorno deve ancora sorgere, dove la sofferenza non è più un obiettivo ma che una via, una via all’obiettivo di una vita felice.

 

continua