La fede del Sinai

Il corso confuso della storia della fede dall’inizio del dominio dorico, alla potenza mondiale della Chiesa romana, è parti­co­lar­men­te vicino a noi europei e davanti ai nostri occhi.

In altre circostanze storiche, il quadro cambia certamente nei dettagli, ma il processo essenziale rimane essenzialmente il medesimo. In India, non c’è mai stata la progettazione nobile e chiara degli dèi, come li caratterizzava la fede olimpica; i sig­nori ariani che anche lì sono venuti come conquistatori, devono essersi dapprima dedicati all’agricoltura e la pastorizia, e sono rimasti alla stessa fede naturale. Quando poi, gra­du­al­men­te, come signori, sequestrarono grandi aree, lo stretto legame fece loro mantenere ancora, oltre gli stessi tratti della natura, anche l’immagine di Dio presente nelle zone residenziali in Himalaya. Le divinità indiane sono quindi essenzialmente dotate di poteri di progressione naturale pura, frammiste e offuscate attraverso tutta la confusione di razze robuste e smodate, forze selvagge della natura: e vi prevale pertanto un caos di divinità cor­ris­pon­dente. Questi, alla vita di caos nei confronti della quale se ne ebbe stanco rifiuto nell’insegnamento del Buddha della can­cel­lazione della volontà17 – uno stato d’animo, che giunse in Europa, ovviamente, solo tra due periodi di fede, come l’Olim­pico quasi morto e il Cristiano ancora rafforzato, da circa il 300 prima al 300 dopo Cristo. Il Cristianesimo nasce come sconvolgimento della vita, ha trovato terreno fertile da ultimo nel folklore germanico, ma è rimasto impigliato nella sua intu­izi­one cruciale nel veleno del delirio della fame ancora in sos­peso; così la degenerazione della vita spirituale ebbe ine­so­ra­bil­mente spazio, e ancora oggi vige lo stato d’animo della stan­chezza della vita, come la predica il Buddha. Maturata dalla fede ebraica, che ne ha anticipato presto il successivo sviluppo intellettuale nelle altre razze.

La nostra storia di fede europea, dopo la conclusione del Vecchio Mondo, è stata fortemente influenzata dalla struttura mentale romana; ma ancora più potente è l’afflusso spirituale che scaturisce dalle fonti di Israele. La credenza nei sov­ran­naturali amministratori del cibo, che perfino piegarono i mig­liori presentimenti olimpici, trovava un approfondimento attraverso la sperimentata impotenza passionevole. Tuttavia, giaceva in questa approfondimento anche il germe del supe­ra­men­to dell’illusione, e ha avuto luogo nella convinzione ebraica di Dio, nonostante tutto il rilascio dell’ appartenenza al Caos che grava ancora gli dei della Grecia.

Naturalmente, questo vero e proprio superarmento della follia, come proclama, a dispetto di tutto il sentimento di libe­ra­zione, la Buona Novella di Gesù Cristo che rincuorava in con­tinuazione le anime, restò nascosto a un suo ri­co­nos­ci­men­to fino a quando il Clarismo finalmente lo espressse,18 mos­tran­do che nella manifestazione e nella cognizione di Cristo, le due metà della verità, quella Ebraica e quella Olimpica, si fondono davvero in una completa verità di salvezza. Così ci troviamo ora, all’inizio del terzo tempo della fede, e, infine, eliminata la fatica della vita, perché il Clarismo abolisce la fede della morte a favore di una fede chiara ed allegra, per un nuovo volo ed il risveglio dell’anima, la cui propria essenza era è stata ri­co­nos­ciuta in modo imperdibile.

Questa svolta netta e clarisitica della vita intellettuale è, naturalmente, un’opera di sentimento germanico, illuminata ellenicamente e consigliata dall’arte del Rinascimento italiano. Ciononostante, l’umanità dovette prima cogliere l’impulso dell’ idea ebraica di Dio, anche se in modo moderatamente cris­tia­no, per compiere il prossimo più alto passo verso la conoscenza di Dio l’ignoto.18a

La fede ellenico-olimpica è basata sul fatto che una razza padrona ha conquistato una nuova casa e patria, giunge alla nuova posizione ed elaborerà, tuttavia, in una vita dal costante fluire, concependo le nuove sensazioni esclusivamente quale più alto livello di precedenza rispetto alle precedenti. Ovunque si potessero ripetere le stesse condizioni, si otterrebbe lo stesso stato mentale, indipendentemente da qualsiasi «modello» – non di imitazione, ma della più profonda autenticità delle es­pres­sioni dell’intento vivente. Perché anche le influenze real­men­te esistenti, diventano fruttuose solo lì e solo nella misura in cui è stata raggiunta la stessa soglia mentale. Come motivo, per cui il servizio di morti, dopo l’esempio più tremendo, «Egi­zia­no» così chiamato, il servizio di riferimento nello stesso senso, «Babilonico», quindi il rapporto esterno è ancora in­di­ci­bilmente meno importante del sapere che ogni trasmissione, il riemergere del Vecchio è davvero possibile, è persino diventato necessario; le forme mentali sono forme di volontà, acquisite nella lotta per la vita.

Per cogliere la completa profondità, il significato e la tra­ge­dia della storia ebraica, è ora di prendere in con­si­de­ra­zione quanto deve guadagnare un livello mentale di fede nella forza interiore quando l’esistenza è un’esperienza che prima ha crea­to questo mondo e l’immagine di Dio, come una fatalità che si scaglia contro le stesse persone, ripetendosi con l’immagine del mondo che si acuisce ogni volta di più per la volontà della gente, che, sempre più definita nella creazione, plasma sempre più precisamente la definizione dello spirito.

E questa ripetizione, spesso rinnovata dell’anima at­tra­ver­so il crollo, spesso rinnovato, dell’esistenza, specialmente dopo una potente felicità ad interim, è la chiave per la conoscenza ebraica e molto speciale di Dio. Era più importante degli altri al di fuori della sua cerchia, eppure il suo limite interiore è segnato proprio dalla sua storia: valuta solo la metà dell’e­sis­ten­za, proprio come la fede olimpica rende giustizia a una sola – un’altra metà dell’esistenza. Il sacro valore della bellezza e della gioia, l’effetto di Dio in loro, confessano la conoscenza olimpica di Dio – la terribile miseria della terra e al di sopra della sovranità di Dio, confessano l’ebreo.

La fede ebraica è radicata in un terreno fatto di amarezze: l’interruzione improvvisa di tutte le normali condizioni ali­men­tari. Pertanto, la fede ebraica, presa in se stessa, è essa stessa una demolizione delle più profonde condizioni della vita, pre­cisamente nel suo brusco sviluppo del suo stato unicamente ter­reno, sul cui nulla scorre l’infinità.

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Dev’esserci stato un terribile destino in Mesopotamia circa cinque millenni fa – il Diluvio.19

Una massa d’acqua enorme improvvisamente ha colpito tutto ad un tratto, la vita di laboriose fattorie tra il Tigri e l’Eu­frate, devastante. Chi non annegò, fuggì: alcuni verso nord fino alle montagne dell’Armenia, e, infinite ore più tardi, se­con­do la leggenda, il felice riunirsi di minor numero di persone in cima al Monte Ararat; verso est, negli altopiani persiani sfug­girono altri; verso ovest nel deserto, arrivò un terzo gruppo.

Questi divennero gli antenati degli ebrei.

Esclusi da una diligentemente tranquilla attività agricola, unica fonte di nutrimento, decimate le mandrie, queste persone hanno si ricuperrono dall’improvvisa emergenza, sfuggiti nel bel mezzo di stenti duraturi.

E di nuovo la fame parlò allo spirito.

Annientata era la vita precedente, distrutto il ciclo del lavoro, distrutto il controllo celeste dell’esistenza terrena. Con una rabbia incommensurabile, gli dei avevano, in un unico colpo, frantumato le cose umane; ma è stato distrutto sia il lavoro umano che la loro influenza di divinità, per cui anche l’uomo vi si adeguava e li compensava con dedizione. I campi, i raccolti, le piantagioni erano spariti, e con loro , ciò che l’uomo doveva fare per guadagnarsi la grazia del Dio. La fine del mon­do, che il Diluvio significava per l’uomo, fu allo stesso tempo il crepuscolo degli dei.

Un unico tremendo orrore si levò, divorando la terra e il cielo, dominando i nuovi abitanti nel fuggitivo deserto.

Ciò che restava a loro come cibo, fugacemente salvate, le mandrie quali beni mobili, non richiedevano ordine pre­ven­ti­vato fisso, nessuna osservazione di tempi e conseguenze divine. La Lega delle divinità fu detronizzata, significando ormai nulla nella vita di pastori del deserto, anche nel caso potessero includere le vecchie abitudini e tradizioni nei confronti di lune e soli. Una unica divinità, la conoscevano ancora: l’orrore; è diventata la compagna in tutte le esperienze nei deserti, come incandescente deserto infinito, infinita solitudine del deserto, furia di tempeste sabbiose.

È anche, e forse, influenzata dalla stessa alluvione – ri­cor­do nella fede di Zoroastro, ha lavorato come servizio di Mitra per il cristianesimo – dal baratro della distruzione del mondo, sorge il monoteismo ebraico. Le paure della fine del mondo rimasero così, perenni, come un germe segreto in lui, rin­fran­can­do l’idea dell’ultimo giudizio universale; la paura di nuove terribili epidemie divine scuote attraverso questa convinzione e le attenuazioni successive, si applicarono in seguito come uno scarto e rifiuto a cui si effettua crudelmente la pena, per in­ci­de­re, sempre più aggravato, il «timore di Dio».

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Non fu da subito una indirizzata, chiara, consapevole guerra di fede contro la molteplicità degli dèi, questo impegno per l’Uni­co Dio.

E ’stata la semplice conseguenza sullo spirito del fatto che queste persone hanno trovato nel deserto, la monotona uni­for­mità del cielo e della terra per un luogo di vita, e il limite della vita. Questo era l’unico ed unico potere da cui dipendevano; quello era lo scopo della loro volontà, e quindi l’ordine mon­dia­le che apparve loro allo spirito.

Poi, il loro rado quotidiano e modo di vita, è stato fissato quando loro, piuttosto sedentari, incominciarono a zigzagare attraverso l’Arabia, possibilmente da un posto ad un altro, da pascolo a pascolo. Così hanno vissuto e si moltiplicarono e decaddero a volte, in gruppi scheggiati nel fiorente paese cos­tie­ro di Canaan, in Egitto o l’antica dimora caldea: le migra­zio­ni di Abraham lo segnalano a grandi linee. Ma il loro posto rimase nel deserto.

Così molte generazioni sono passate nella stessa monotona pienezza della erratica vita pastorale. La gente era in aumento e le mandrie si moltiplicarono e la vita ha cominciato a offrire qualche conforto: come la terribile divinità fosse diventata più gentile, più mite, apparendo come un mecenate e amico di antenati tribali, che ha promesso la ricchezza delle persone e dei greggi.

Ma le persone sono ulteriormente aumentate, le mandrie erano in ulteriore aumento e, in ultima analisi, la vita era quella di desolazione e di miseria: i pascoli non più sufficienti per nutrire le quantità di bestiame, di cui sono state nutriti le folle.

E improvvisamente, ci fu un nuovo, decisivo aumento di angoscia.

Da lungo o di recente separata parte della popolazione della valle del Nilo, l’Egitto abitato, lo dovettero abbandonare per dare modo di sfuggire le provinciali autorità che volevano rimediare gli indisciplinati pastori e renderli docili lavo­ra­to­ri.20 Ad ogni modo, improvvisamente moltiplicata la quantità di persone, i bambini, ed era del tutto inadeguato il pascolo, il bestiame senza foraggio decimato, la fame ha dovuto tor­men­ta­re le persone. Il generale disagio angosciante divenne realtà.

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Quindi, un singolo uomo, intelligente e attivo, potè assurgere a leader spirituale.

Ebbene, si volle descrivere Mosè come antistorico eroe leggendario o minore divinità tribale, sospingendolo da parte: E tuttavia, l’essenza parla in tutte le caratteristiche della tradizione, chiaramente di grande umanità, vero agire. Con sguardo da statista, Mosè si rese conto che ciò che minacciava la sua gente, la moltitudine del popolo, allo stesso tempo ha significato un soccorso e aiuto: la superiorità della conquista di quel latte e il miele in primo piano, pascoli e campi a riparo della fascia costiera settentrionale.

Profondamente significativo, tuttavia, è che Mosè non semplicemente fece di sé stesso un sovrano e duca di messi in necessità e forzuti bovini di Israele, non ha fondato un vero e proprio regno – ma ha piuttosto messo assieme tutte le per­so­ne e tutte le aziende, affiliate da un’unica fede. Radici più pro­fon­de le hanno avute in tutti i tempi in cui il popolo di Israele, avanti e indietro, vagava attraverso il deserto, l’hanno vinto un doppio sentimento nell’anima: l’incondizionata uguale inclusione di tutti in tutta la tribù, che a sua volta necessariamente dipendeva dal terrore conservato dal deserto.

L’esproprio incondizionato della volontà individuale, del sentimento individuale e del potere di acquisto individuale nell’ambiente, nell’insito della tribù, a seguito di un ambiente che attraversa senza tregua il terribile potere del deserto – ha dimostrato di essere fondamentale ed è l’essenza dell’anima ebraica, come si è verificato all’arrivo di Mosè.

Così egli stesso sentì, con tutta la forza di volontà così sen­tita, che lo sapeva anche il suo popolo, con ogni attività; e così diresse il possente confinamento, più impressionante che mai, verso il «padrone» dell’essere, verso «l’essere», al quale la potenza del figlio umano poteva contare poco più del non es­se­re. Un’esplosione terribile di qualche vulcano nel deserto, potrebbe significare l’occasione di tale annuncio; i ricordi di esso ne tremano ancora nella saga del Sinai.

Ma la relazione tra Dio e l’umanità doveva cambiare in qualcosa, la vecchia fede del diluvio doveva cambiare. L’ex gregge di Dio, in nome di Dio, divenne l’esercito di Dio, cer­ta­mente al seguito di Mosè, risvegliato da precedentemente compromesso nel grigiore della miseria, alla forza di terra nel mondo, per sottomettersi al «Signore» del Paese. E pertanto, la prosperità era in vista.

C’è ’stato un essenzialmente vero, profondo sviluppo nella esistenza di Israele: l’individuo era un soldato dell’esercito tri­bale fermamente inserito nel sistema tribale, tutto di lui erano le forze che ne appartenevano alla tribù, l’esercito, la cui at­ti­va-efficienza, ma l’arma senza cervello era un mero strumento – la tribù nel suo insieme è rimasta comunque, anche in comp­leta obbedienza, arma e strumento del signore, con pieno im­pie­go di tutte le forze e tuttavia senza alcuna propria volontà.

Espropriazione della volontà, allo stesso tempo con il mas­simo utilizzo delle forze, una volta rimbalzati a caso dalla con­sistenza delle mandrie, ma ora mirati pienamente a pro­getti di conquista, completa sensazione di servilismo con in mente la prosperità: i figli d’Israele ora si immergono nel mondo, questo è lo stato del loro essere nella storia del mondo, molto di come due millenni dopo, i figli di Ismaele, i soldati di Alllah.

Come mercenari del loro monodio del deserto, per l’au­men­to della sua proprietà, le tribù di Israele sulla regione costiera caddero, sostenute dalle relative tribù, la prima, a est del Giordano, trovati abbastanza pascoli, divennero semi-stanziali.21 Massacrarono, dove poterono, gli abitanti, i non israeliti, i non-diaconi di Jahvè. Se anche la sottomissione completa richiedeva molto tempo e se il mare rimaneva anche il loro colono, i soldati pastori trovarono, in un attimo, ciò di cui avevano bisogno: il cibo.

Ma loro stessi furono trasformati da questo cambio di controllo della fame. Con i terreni agricoli, sono diventati agricoltori o signori del feudo.

Quindi la fame fu diretta in modo diverso e la visione del mondo si ridisegnò.

La fertilità costante di Canaan, il loro nuovo terreno di casa, il regno più mite del cielo, saldamente assicurati nel corso degli anni gli eventi – tutto questo ha suscitato ancora una volta l’idea della divina abbondanza di vita e dimenticata la verità di un tempo, quando il diluvio li aveva cacciati nel deserto. Impercettibilmente, la terribile Jahvè del deserto, che ha quasi la natura del futuro «Satana», si impossessò delle caratteristiche più lievi della terra di Dio, di Baal;22 accanto a lui è arrivata la regina del cielo, 23 unito l’esercito del cielo. La terribile divinità svanì, le persone più felici diventarono apos­ta­te, senza nemmeno saperlo. In verità, guardavano alla vita soprannaturale nella stessa fame, ma ora essa indossava un volto diverso, una mente diversa, una valutazione diversa.

Ma a malapena arrivò di nuovo il bisogno, per errore, da nemici vittoriosi, così che la vecchia fede in custodia, la vecchia paura dei deserti e degli dei, di nuovo si levarono alla violenza. L’afflizione ha maturato una svolta più dura e chiusa: il disagio maturato, una più dura disposizione e chiusura – indipendenti e messi a disposizione dalla prosperità di ogni altro – i membri della tribù tornano più solidamente riuniti, insieme: come gli occhi tornarono indietro alla vecchia tradizione, alla mezzo disattesa considerazione del patto con il Signore Jahvè.

Probabilmente, ha preso il comando un qualsiasi potente retto dalla violenza, dal predicato con zelo intento nel «nome del Signore», ha sottolineato nella sofferenza di vendetta, la punizione del popolo con l’apostasia, la riconciliazione ancora una volta proclamata esclusivamente che per tutte le persone che abbandonassero gli dèi delle altre nazioni. Ora, la paura della costante fobia, la speranza di una nuova prosperità, diede nuova forza e potere al popolo di Israele.

Poi, per qualche tempo, l’immagine più mite del mondo scomparve, e di nuovo Jahvè era l’unico maestro, il terrore, da solo, determinò la fede.

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Innumerevoli volte questo scambio di Jahvè-fede rinnovata in situazione di necessità tribali e il Signore in calo dalla pienezza della vita: i giorni di «giudice» come un braccio tribale, i tempi dei re che erano le persone impegnate a lottare per i vicini ne­mi­ci, finalmente, dopo lunga resistenza di Jahvè – i pii hanno scelto, sono essenzialmente gli stessi in questo senso interiore.

Tuttavia, si mostrano chiaramente, internamente, dop­piet­te nello sviluppo, l’immagine della propria storia di Israele: in prima fila fino alla caduta del governo, poi come di popolo di extra statali.

Nella prima doppietta di sviluppo si verifica chiaramente una spaccatura nella struttura popolare, una separazione: nut­ri­re le disgrazie, a volte ripetute, e aumentare in alcuni cuori la minacciosa immagine di vendetta del Signore che richiede ob­be­dienza assoluta in tutto, la condanna in­con­di­zio­na­ta di ogni individuo – ma in molti scompare gradualmente l’in­con­di­zio­na­ta ubbidienza alla triubù e a Dio; questo accade in coloro che, dopo tutto, soddisfatti nel reddito annuale del ciclo di la­vo­ro , che sono anche le forze cui sono legati, sono felici nella gente della fattoria, e anche questo è vero per coloro che sof­fro­no di meno disagio, i ricchi e i potenti. Così, una intera par­te si dice interiormente volersi liberare della tribù dei loro pad­ri, probabilmente mescolati con i popoli vicini che vivono la restante popolazione nativa, in crescita nei loro usi e costumi e punti di vista, e persino non più tornare indietro, nemmeno nell’emergenza, ad una credenza tribale: loro non ap­par­ten­go­no più alla storia di Israele.

Condividono e fannola storia del destino di Israele sono unicamente quelli che li proteggono da Dio come vendetta, anche nel senso più profondo del diluvio – e temono il deserto, con l’integrazione incondizionata nel tutto tribale: questi due sentimenti sono in realtà le due metà complementari di un unico stato d’animo.

Selezionato da questi e filtrato in ogni disgrazia, il seme del giudaismo – gli altri, maggioranza, al più scompaiono nel grembo materno e nel sangue di altri popoli.

Di volta in volta, viene così allevato nel popolo di nuova formazione di Israele, più intensamente e acutamente, il dop­pio sentimeto desertico della propria nullità, e la sovranità tri­ba­le, analogamente alle proprie debolezze insieme a uno sfac­cia­to orgoglio tribale – l’impersonalità nata dalla pre­sun­zio­ne razziale, il vero sentimento di ogni illusione razziale.

Infine, si tratta di questo, che, proprio coloro dalla interna freddezza, mentalmente in realtà indifferenti, che poco si dan­no a pensieri elevati e si esauriscono in acquisizioni, sono comp­letamente e pienamente ammaestrati in schiavitù della unità tribale, difficilmente possono scomparire in altre nazioni – sì, anche mescolando se stessi, riempiendo le altre nazioni con il sangue delle loro emozioni.

Naturalmente, questo accade solo quando il supporto della razza, nonostante che rappresenti la più forte esigenza per il potere e la sicurezza della vita, diventa della vita la vera vio­len­za; ma il contenuto più genuino della fede svanisce.

Al contrario, per la discrininazione precedente, ora nella seconda doppietta di svilup­po, separati gradualmente dai padri della fede su misura, diventati quasi nudo potere e la follia della fame, solo le anime più profonde portano il grande svi­lup­po della fede, il pozzo che ha iniziato sui servizi di Jahvè, fuori dall’Ebraismo, che giura e conserva il risentimento e l’odio di questi «apostati».

L’ebraismo maturò dalla prima divisione, e da questa seconda, fu preparato, a prodromo, il cristianesimo

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Questa evoluzione dello spirito ebraico è iniziata quando, per la terza volta, le necessità del destino modificarono com­ple­ta­mente il sostentamento: la distruzione del regno provocata da Salmanassar e Nabucodonosor.

Quando le tribù del nord d’Israele, cadute preda degli Assiri, e dello stesso male a sud minacciate altre due, tre­ma­ro­no nella loro anima gli uomini ai quali l’intimo era par­te­ci­pa­zione al loro popolo. Loro era impossibile valutare la dis­tru­zione della loro nazione come una sconfitta ed espressione dell’impotenza del loro Dio, però, altrimenti da Israele e gli altri paesi, solo la vittoria e la brillantezza del popolo tes­ti­mone della potenza del dio tribale – l’errore prigemio creato dalla fame nella vita di fede, che anche in seguito alla unicità della divinità, la cosiddetta «vittoria della giusta causa» tes­ti­monia il «giudizio di Dio», sia in combattimento, sia in guerra, dove i «grandi battaglioni» troveranno l’approvazione del Signore Dio, e anche la dottrina del karma radicata nella stessa follia, che successo o insuccesso terreni siano un valore sacro!

Qui nello spirito israelita accadde qualcos’altro, men­tal­mente più profondo; qui un’inversione di tendenza iniziata nel rapporto essenziale con Dio come successo di nuo­vo e di nuo­vo, ripetutamente, è stata la criminalizzazione stessa di Cristo e dei suoi seguaci, ma interpretata dai suoi seguaci, come una vittoria divina.24 E ’iniziata, anche se ancora oscurata a lungo, la luce della vera conoscenza di Dio; dapprima si svegliò in negativo, l’idea di incomparabilità (incommensurabilità) di Dio e del nostro aggrovigliato mondo terreno. In questa pre­pa­ra­zione della verità, che era quasi del tutto negativa, la struttura della vita ebraica ha fatto il suo massimo e veramente costruito sui valori umani; un popolo meno colpito dalla sofferenza pro­ba­bilmente non avrebbe mai sperimentato questa parte della verità.

Gli uomini che hanno fatto questo eterno passo dello spi­ri­to, e il cui più grande fu Isaia, erano essenzialmente radicati in tale dio tribale e nella tribù che ora erano alla deriva, appena si dichiarò il disagio più profondo e il potere di emergenza es­ter­na alla vita del loro popolo. Questi uomini dovevano solo ren­der­si conto che il loro tempo e le loro tribù non si professavano nella stessa fedeltà alle credenze tribali. Hanno visto i suoi uni­camente come un popolo di ricchi e poveri, suddivisi in classi, hanno visto l’ingiustizia, l’oppressione, l’inganno e l’odio dei bambini nel divario di sangue, hanno visto la classe dirigente negoziare con potenze vicine, liberamente fare tribù con loro, hanno visto i vari servizi degli dèi stranieri diffondersi – sem­bra­vano, insomma, alienate le persone attraverso la prosperità alla fede tribale ancestrale che per loro era lì rappresentando ancora il tutto – hanno visto l’apostasia del popolo dalla ter­ri­bile potenza nel deserto del Dio di Israele che sceglie nell’ob­be­dienza. La vendetta, che già consumava una metà maggiore della popolazione, preparò certamente lo stesso destino per il resto.

«Ma» – ha detto tutto nel senso ancorato tribale: avesse Jahvè scelto invece di altre pene, siccità, malattie, cattivo rac­colto, il castigo della morte dello Stato popolare e così per suo conto il nemico avesse fatto vincere per suo volere, con­du­cen­doli alla vittoria. Non il dio degli Assiri avrebbe vinto il dio del regno di Israele – no! il Dio, da Israele professato, avrebbe per­messo al dio degli Assiri, di rafforzare l’Assiria quale punizione di Israele. Non un Dio minore – più potente, invece, era Dio Jahvè, il Signore, un Dio anche al di sopra degli altri, di quelli delle altre nazioni ed i loro dèi.

Così, il tribale e pio dispiacere della disperazione è allo stesso tempo un enorme orgoglio tribale. E quando il Signore Jahvè era davvero il Signore di tutti gli dei e dei popoli, non a un singolo come in sua naturale appartenenza, la volontà di Israele ha avuto così la meglio cui Israele ha dovuto rinunciare, ma il suo cuore, quello delle persone che hanno «prescelto» la gente, più di tutti gli altri, in modo completamente sublime. Il leggendario inizio tradizionale dello stato di Israele si sta tras­for­mando in una nuova illuminazione. Ciò che è stato vissuto nei sentimenti quale reciproca appartenenza tra Jahvè e Is­ra­ele, prende la forma di un contratto federale formale, rias­seg­nato nel tempo del deserto, legato al nome eroico di Mosè.

Per la storia, anche il documento: improvvisamente la cosiddetta seconda, nei fatti, appare la prima legge, del più tardi contato come quinto libro di Mosè (Deuteronomio).

Eppure, qual principale fonte dell’orgoglio israeliano, c’è la minaccia della fine di questo privilegio israelita. Inequi­vo­ca­bil­mente se ne parla da tutti i discorsi profetici, ovviamente, descritta come il peggiore degli orrori: la possibilità di una nuova elezione da Jahvè, che semplicemente non era il dio della natura, la possibilità di cancellazione del vecchio, non necessaria in modo naturale, ma liberamente sostenuta per volontà di Dio e quindi alleanza e patto federativo che potrà venir sciolto – a meno che gli israeliti non si convertano a Jahvè in un’obbedienza tribale incondizionata, che rifiuterà tutto ciò che è estraneo; altri popoli dovranno essere raccolti attorno Israele, invece di grazia e favore del Signore, quando gli israeliti in spregio a tutti i tribunali, mostreranno calo nella unità tribale, la purezza e ubbidienza, quale valore di rifiuto. Naturalmente, il meglio del popolo, profondamente radicato in Jahvè e in Israele, sperava in un risveglio del vero spirito di Israele come lo sentivano e lo stimavano, e poi per la ri­con­ci­lia­zione con Jahvè, per il ristabilimento dell’alleanza, per la nuova magnificenza dello Stato piena di prosperità, giustizia e sazietà sotto la guida del divino salvatore del sangue reale di Davide, il «Messia».

Ma è la paura della vendetta, è la speranza nella nutrizione che agiscono più poderosamente in questo sviluppo della fede, e tuttavia, la verità di Dio germina qui inequivocabilmente quale più profondo desiderio dell’anima, anche se gravemente segnata dal buon senso, sentimento in gara con l’orgoglio delle persone: quella tra Dio e l’uomo in un libero patto, non esis­ten­do una relazione coercitiva forzata. Naturalmente, questo nucleo di verità, che scatta dapprima solo negando l’immagine di Dio, aveva bisogno o comunque di illuminante maturità, prima che si palesasse per l’umanità; prima ha dovuto soffrire le barriere della razza. In ogni caso, è già qui evidente come la sofferenza nel corpo e angoscia dell’anima, la verità comp­le­men­tare metà ceduto alla verità metà della gioia, fino allora consacrazione all’alta fede olimpica; ma la nuova consac­ra­zio­ne è consumata unicamente nella compenetrazione della verità nella sofferenza, che a sua volta trova compimento solo attra­ver­so la verità della gioia. E questa compenetrazione tra biblica e olimpica verità, semitico ed ellenico spettacolo di vita, ha avu­to luogo nello spirito germanico del Clarismus perché Elisa­rion ha parlato chiaramente della natura intrinseca come libero collaboratore presso le opere di Dio nel chiaro progetto, ces­sa­no di avere effetto le blasfeme impostazioni di idolo della paura, e il rincuorante messaggio di Cristo si acquisice un sito finito, che mancava, erroneamente, in così tanti cuori.

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La prima campata del giudaismo va dal Diluvio al crollo di Canaan; contrassegnati dai loro personaggi che erano: il potere onnicomprensivo terrificante del deserto – il pacco cos­ti­tu­zio­nale per gli instabili pastori- l’impotenza dell’individuo sol­le­ci­tata dalla fame.

La seconda campata, dalla conquista di Canaan fino a quan­do il governo affonda, indicata dal geloso monopolio del Dio della tribù – l’organizzazione militare della tribù – l’af­fi­lia­zione tribale di ogni individuo.

Con la deportazione a Babilonia, inizia la terza campata e si conclude con l’ultima distruzione di Gerusalemme sotto Tito; eccone i valori: la supremazia del mondo di Jahvè Signore – sangue benedetto e Costituzione federale – esproprio assoluto ed incondizionato dell’individuo singolo.

E la quarta campata?

Sotto il segno della totale nullità dello Stato, insop­por­ta­bile per coloro dotati da una particolarmente robusta volontà comune promulgano: ancora di salvezza una solida struttura tribale, questa volontà è diretta a tutti e impregna così tutta la fede. Scopo della fede consacrante i Giudei, che è – dal mo­men­to che la loro vita in termini di volontà è stata de­na­zio­na­liz­zata, la massima sicurezza, la purezza e le forze tribali e di sangue. La sua graduale rinascita al di fuori dello Stato si ap­pli­ca al genere stesso di acquisizione di ricchezza senza scru­po­li, prestazioni di tutti gli individui che sono, quindi, in­ti­ma­men­te legate oltre i limiti delle singole aree economiche na­zio­na­li, nazionaliste, con un’altra fede moderatamente contro ogni straniero, tribale sanguinamento emotivo, come un potente esercito di bande di volontari, scout, avamposti disseminati nel vasto territorio del mondo, qui non c’è (come superficialmente ritenuto), la fede come una copertura più intelligente per ot­te­ne­re la prosperità terrena – qui è diventata essa stessa logica espressione della maniaca credenza di fame di tutta la terra e di ogni razza, la prosperità terrena presa per il contenuto della fede, il controllo assoluto della fame, con il potere tribale or­gog­liosamente utilizzato quale metro di riferimento.

L’unico fervore si applica alla tribù razziale, come forza vitale, conservatrice e la divinità del singolo – solo di con­se­guen­za esiste la dipendenza dal denaro, come la più forte potenza e la potenza totale della tribù, come base della sua mancanza di territorio, di zona e forma di governo «extra­ter­ri­to­ria­le». Proprio come avversari della mente di massa, che così chiaramente è esplicitata nei soldi, ho bisogno di soldi, il finanziariamente potente ebraismo è uno stato «sui generis», anche se non riconoscono nello Stato, ma in tutto uniti al di sopra degli stati – vi è paragonabile la Chiesa cattolica, in particolare dal 1870: come al solito, gli Stati «territoriali» nel nome del benessere del paese, la massa vi prevale, le singole aree stanno costringendo gli individui singoli, così – da cui serve una compulsione del sangue – lo Stato razza ebraica pro­prio di massa, come extraterritoriale volontà dei suoi sudditi, e quindi indirettamente, naturalmente, sul resto del genere uma­no, come hanno conquistato il fondo dell’economia di massa, i soldi. E ’stato detto, la casa degli ebrei fossero tutti gli altri ebrei, così il resto dell’umanità è il territorio del paese degli ebrei che hanno bisogno di soldi.

Proprio per quanto è internamente dipendente dal denaro, è di proprietà degli ebrei: dunque incomprensibile l’«anti­se­mi­tis­mo» quando si muove contro il potere economico e razziale esterno per combatterlo, ma più magnifica la mente di massa, idolatrante maggioranza e la razza quali «pensieri nazionali», loda ciò che è solo lo stomaco nazionale.

Tuttavia, di gran lunga il singolo Ebreo, altrettanto i sin­go­li non ebrei, personalmente come uguali ad aggrapparsi a van­tag­gi dati alla vita dai soldi – stimati dai non ebrei come gruppi razziali che hanno fermamente aderito al denaro in primo luogo quale valore comune per il clan un razziale «Fidei­kom­miss» (servitore, impiegato della fede) la cui mera di­pen­den­za, funzionario razziale, è l’individuo: dove c’è una forte sensazione di consanguinità e clan, si mostra nel proprio pic­co­lo esattamente la stessa identica cosa, come presso contadini e nobiltà.

Comprensibilmente, anche se per tutti i non ebrei, poco! fortunatamente, questo riguarda il potere supremo della Terra. Come una volta, persa la patria all’immediato dei privati, avere tutta la Terra come casa, gli ebrei vogliono incontrare la linea del loro destino in modo tale che essi, rinunciando alla risur­re­zio­ne come un piccolo Stato, sono intenzionati a prendere tutta la terra come territorio nazionale, tutto il potere e il controllo unito nelle loro mani. Apparentemente contro, a quanto pare il sionismo, e lo seguirono tutti gli ebrei, poi gli ebrei superiori potenze consumate in modo sicuro, ma è poco più di un pic­co­lo, by-pass emotivamente più profondo del diluvio ebraico; rag­giun­to il loro obiettivo, la ricostruzione del Tempio in Isra­ele Stato palestinese, appena acquisito il potere, il mondo eb­rai­co per l’area del tempio di fede avrà in mezzo e attorno alla Stato eb­rai­co, un centro visibile simile se non uguale a quello del Vaticano. Per tutti gli ebrei un possibile trionfo della fede, e per molti la prospettiva di un’esistenza più tranquilla, il sionismo per i non ebrei non significa una decisione di lotta per il potere a loro favore, ad esempio eliminando la com­pe­ti­zio­ne ebraica diretta; questa è diventata troppo la forza trai­nan­te della struttura di lavoro economica mondiale, troppo da poter essere ritirata.

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La nuova nascita del popolo ebraico, l’acquisizione di nuova sicurezza alimentare si alzò e cadde, si tiene in piedi e cade con la massima unione di tutti, mai, mai era sotto i colpi del des­ti­no e diventa sempre più solido vivaio da cui dipende l’esistenza degli individui. La prosperità individuale significa che i con­cit­ta­di­ni prosperano! se per questo o per quello, tale premio è identico, perché ognuno possiede che una faida tribale, quanto acquisito – la tribù, la comunità è vero proprietario dei beni e fattore di e per tutti. Chi non sente e condivide questa af­fi­lia­zio­ne tribale incondizionata, e non mantiene strettamente le distanze da altre nazioni, dal sangue straniero, dalle strane usanze e tradizioni all’interno, dalla fede nella longanimità quale collettore di vita, più libera e rinuncia all’ordine di Dio una volta per tutte – era ed è un apostata, odioso come un tra­ditore tribale e nemico.

In una cultura così selettiva nel puro sentimento tribale per l’unità razziale, è basato tutto lo sviluppo di potenza del giudaismo: è il segreto del suo successo, il suo diritto pregresso che desidera condividere con tutte le nazioni; da qui il suo aspetto di apparente combattimento del pensiero razziale tra le altre nazioni, che ora aspirano con le stesse armi nella lotta per il potere e vogliono mettere unità razziale a resistere contro unità razziale. Invece di lotta profonda per sollevare al livello più alto – a sollievo e copertura del proprio essere – tengono questi nemici degli ebrei ancora più resistenti e sullo stesso piano; dell’antidoto, che essi raccomandano, l’umanità ne sof­fri­rà per tutto il tempo in cui anche il veleno agisce.

Per appartenenza tribale incondizionata, come dapprima l’angoscia del deserto, in seguito quelle della guerra – ten­de­va­no fin dall’inizio almeno quelli – agricoltori dei propri campi – con i loro problemi di sperare nel proprio raccolto e ha vinto l’attenzione ai loro appezzamenti di terreno. Per quanto stret­ta­men­te tentarono vincolarne la vivina zona successiva, clan e comunità di villaggio, datori di lavoro e feste su misura e di culto – la potenza più tribale è rimasta estranea e distante da loro, e le grandi fortune di tutti li hanno meno toccati in­te­rior­mente grazie al loro successo sul campo piuttosto flo­ri­do (come i conquistatori intelligenti hanno sempre capito e governato in sicurezza, non infastidendo i contadini); vivendo con il ciclo della terra, adorarono più immediatamente i poteri terreni e celesti, che quel terribile Jahvè. Vivevano di più con la zappa e preferivano coltivare la terra sotto un dominio straniero piut­tos­to che vagare in lontananza per i sogni di grandi poteri; e quando furono portati in una terra straniera, essi rapi­da­men­te misero radici sul nuovo terreno che era il loro campo. Gli is­rae­liti stanziali non partecipano, per ragioni di natura, alla storia tribale.

Si unirono più saldamente alla bravura tribale unicamente quelle nature in cui si potrebbe risvegliare la vecchia per­ce­zio­ne di pastori del deserto: instabili, volatili e rapide acquisizioni ed appassionati, poco inclini ad attività di deliberata medi­ta­zio­ne piuttosto obbligatorie, con fermezza le connessioni, reti segrete e diffuse di clienti, in agguato sulle occasioni, rapporti di emergenza, commerciali e relazioni di scambio, sembrano essere i mezzi di sussistenza più sicuri – più sicure delle pro­prie­tà rigogliose di campi e prati. Poterono essere facilmente separati dalla terra, hanno dovuto separarasi difficilmente dalla tribù, erano sempre più e a lungo strumenti disposti a fini nazionali senza perseguimento di propri fini tribali, in pieno acquisiscono il senso degli affari, il che significa che, ma solo nella misura in cui esso feconda ogni in­di­vi­duo, facendo par­te­ci­pare, quanto lui, gli altri compagni. Ogni vantaggio in­di­vi­dua­le era solo un interesse sul totale attivo, i legami tribali – una quota («dividendo») sul profitto tribale. Altri tipi, non erano stati in grado di seguire fedelmente la schiavitù, l’umiltà incondizionata, come a loro chiesto dalla loro fede in un solo Dio, ma seppur essendo impegnati ad utilizzare il proprio vo­le­re, mai di lasciare la cerchia della comune obbedienza. Qui siamo quasi alla soluzione ideale della seria questione di come fare per espropriare tali individui senza ucciderli: qui si è generalmente parlato del singolo ingranaggio, della piccola ruota di meccanismi più generali.

Così la base del giudaismo divenne fatta di specie aliene e straniere ai campi, che erano maggiormente inclini a effetti in­termedi mobili, più facilmente esposti al controllo della fame.

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Poi si arrivò al crescente traffico di popoli; il maggior numero di popolazione hanno lasciato ovunque diminuire l’importanza del campo agricolo, in modo sufficiente, un minor numero di mani per cui necessitava il pane: folle sempre più grandi hanno dovuto vivere separati dalle aziende agricole: sempre più di­ven­tati civiltà di produzione di beni e del loro collocamento.

Dal momento che sono stati necessari medie mobili e in­ter­mediari per nudi scambi – proprio perché il nudo traffico di scambio si è concluso in tal modo. La produzione giornaliera di singole professioni acquisì valori sempre più differenziati, d’altra parte, i risultati di questi speciali servizi professionali, i loro prodotti sempre meno direttamente legati al cibo, in modo che siano effettivamente pagati maggiormente, ma hanno sos­te­nuto in minore quantità i singoli consumatori. Di cibo c’è un consumo più grande che solitamente delle merci – il calzolaio probabilmente può pagare un primo tempo con i suoi stivali merci alla panetteria, beni di pane, ma resta comunque il, fatto che gli stivali vengano utilizzati oltre, il loro valore è con­su­ma­to nel pane, e il ciabattino ha bisogno in precedenza di nuovo pane, più di quanto il fornaio è disposto a prendere in pa­ga­men­to nuovi stivali; così il ciabattino al posto di merci ha ora una dichiarazione di ricevuta – il denaro – per dare un senso che ha ricevuto da un’altra parte per gli stivali, al loro posto altre materie prime, un contatore il cui consumo è di nuovo inferiore a quello dei propri prodotti. Quindi si tratta di soldi, in una prima fase, a compensazione fluttuante del lavoro,25 in quanto si crea uno stile professionale superiore, ma giunge il momento in cui il minore può farne a meno, così e così tante forze del progresso tecnologico, il miglioramento della fase di lavoro. Qualsiasi istruzione superiore di un numero inferiore di forze individuali atte a soddisfare il pubblico, porta con sé che la lavorazione superiore fornisca una maggiore quantità di ener­gia produttiva rispetto alle singole esigenze dei con­su­ma­to­ri, e di conseguenza deve controbilanciare le sue prestazioni con un prezzo più alto, quale singolo caso dell’agente in­ter­me­dio del denaro che egli acquista. L’aumento del numero di per­sone e il livello, lo stato di avanzamento, del lavoro au­men­tano sempre il bisogno di denaro.

Qui, la piccola scheggia semita della terra, vide il proprio ruolo terreno. Così ha dovuto rapidamente cedere al potere del denaro che si trasformerà negativamente, come nel Medioevo il campo di detriti dell’impero romano divenne di nuovo il campo agricolo, e vi ha dovuto tornare al più presto, la popolazione es­sendo cresciuta ed è diventata aliena al terreno agricolo.

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Va detto forte e chiaro: l’alienazione del campo agricolo è ine­vi­ta­bile con l’aumento della densità della popolazione e crea proprio la discontinuità in ogni nazione, quelli del suolo e l’«extraterritorialità» senza radici, come gli ebrei, in quanto hanno perso, in un colpo, il loro paese. Senza una interna alienazione di campo agricolo preesistente, un popolo non può affatto soggiacere all’influenza ebraica.

L’incremento delle dimensioni della popolazione di cui gli avversari del nazionalismo ebreo sognano in idolatria della razza, crescendo così lo Stato, rappresenta un approccio con­tro­pro­ducente, di cui vogliono proteggere la loro gente, e sono soggetti a far durare anche gli strati costanti agricoli alle con­di­zioni del mercato mondiale. Ma questa dipendenza esterna non sarebbe la cosa peggiore se l’economia di massa non fosse schiavitù mammonistica interna, e preferirebbe tutta la di­pen­den­za ai valori rispetto la sostituzione vitale, dove si guadagna maggiormente in con l’espropriazione della vita, la vita quale invecchiamento sempre accelerato, valori che si diffondono a macchia d’olio. E questo stadio di denaro mammonistico è ur­gen­temente interessato all’unità della fede, sia essa una Bibbia, il dogma naturale o razziale.

Solo allora, l’allontanamento inevitabile dalla terra, sig­ni­fi­ca nessuna riduzione di vita se gli artigiani, i commercianti, i tecnici, i lavoratori, insegnanti, dipendenti pubblici – l’es­sen­zia­le della classe urbana, quale costruzione della città di per­so­ne – in acquisizione di una diretta conoscenza, insieme al fine di terminarne la schiavitù, che corrisponde agli agricoltori, l’idolatria del tutto – le leggi naturali che rinunciano alla rigida pubblicità e professano, come paladini della trasformazione del mondo, la nobilitazione della natura. Chi sente il limite della vita nella natura intricata, deve degenerare, a meno che egli conservi anche il vero lavoro che ha a che fare con la base na­tu­ra­le del cibo; solo a chi la futura natura è la sua più alta patria, può avere uno stallo nel cuore della terra. E questa necessità interiore obbliga gli ebrei, come lo sono stati storicamente, a portare tutta la terra, e alla terra il potere di sostituire il campo agricolo perduto, in quanto sono anche in grado, quali più forti credenti della nuda mania della natura, radicati nell’on­ni­po­ten­za del passato.

Questo popolo senza terra, cui ben presto apparterrà tutto il pianeta, senza una casa, eppure nelle associazioni tribali pos­sedendo case e la vita delle piante e del suolo, è in suo potere ed impotenza il metro della massificazione della umanità; essi stessi sostanzialmente fondati sull’impersonalità e senso ge­ne­rale –, diffusione sottile, massa, ma in una minoranza, ancora collegato nel sangue indissolubile, prospera solo sulla potente pubblica massa di terra che si estende a innumerevoli individui saldamente in esproprio e quindi che prima o poi rispedisce a casa loro – anche se, come in Russia, si applicano ancora le pseudo-inibizioni, giustificate dalla prevalenza dello Stato agri­co­lo. E infatti, prospera in modo eccellente, come una classe superiore di massa, aristocrazia di massa, il proprietario ter­rie­ro della terra. Per quanto possa sembrare difficile, è vero.

Quanto ci vorrà, prima che si getti via la maschera «demo­cratica»!

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In realtà, la nuda impersonalità di tutte le monete determina questa, per così dire, proprietà futura pan-ebraica; saggia in­per­sonalità dotata di sentimenti ereditari, chiusa tradizione di fedele cooperativa d’acquisizione è ciò che i fautori delle razza hanno come obiettivo di Stato razziale – è pertanto l’intima essenza del giudaismo ed è allo stesso tempo struttura comune ed adatta ad ogni razza di altra fioritura. La lotta in questo li­vel­lo, l’economia della razza, finirà solo con la vittoria interiore dello spirito della razza, anche se l’Asia dovesse ricuperare tut­ti i Semiti. Di altre modalità, di per sé stesse in grado di por­ta­re a obiettivi più elevati per il recupero di una libertà interna della personalità individuale nei confronti dello spirito di Mam­mone, in Israele se ne era a già a conoscenza.

Di sicuro, questa potente gara di sviluppo tribale era pret­tamente in antitesi di Israele per ciò che era un vero Dio, co­nos­cen­do la sofferenza mentale dei migliori credenti in Jahvè, come ugualmente di coloro che in ogni nazione seguono questo percorso di sviluppo, portando ad un divorzio interno che deve prima o poi intervenire: qui la potenza della massa esterna! Ecco l’ala del singolo! Il potere terreno è acquisito solo at­tra­ver­so la resa della crescita intellettuale superiore, poiché è tuttavia peculiare a ogni comunità razziale divenuta storica. L’e­re­ditarietà, il lignaggio e retaggio del sangue, la volontà pura o torbida fatta di risonanze nel proprio corpo a de­ter­mi­na­re la natura ed il livello del suo più alto sviluppo, nel suo speciale, quale aggiunta agli altri uomini e altri fondi; ma il sangue ereditato da deliziosi tesori ancestrali è un veleno pa­ra­liz­ante, non appena l’uomo non giudica con questo tesoro e questi retaggi, li lascia agire passivamente su di sé, ed invece di un propagatore di vita, diventano una tomba, custode nutrita da falso timore nel rispetto degli antenati, significanti che la mera stanca vigliaccheria della vita. Poi, diventa schiavo della razza, entra nei sensi della massa e diventa uno spreco men­ta­le.

Per questo motivo, due principali linee di esecuzione in ogni storia nazionale perdono sempre più pezzi: la serie di fantasmi, che portano sempre più in alto l’immagine di vita di nostalgia, che collegano l’obiettivo di vita alla volontà – e quelli dovuti alle condizioni esterne, che nello splendore di massa del megacommercio annientano il mentale per giungere ad un punto morto. Quanto più questa vita esteriore del po­po­lo, più essa è malcompresa, malgrado sia ulteriormente esal­ta­ta da solitari oratori dell’anima più profonda del po­po­lo, nello Stato potente razziale «mummia pietrificata», diventano na­tu­ral­mente e rigidamente alienati nell’instancabilità del lavoro e gli obiettivi interni della razza. Questa separazione si è ve­ri­fi­ca­to proprio così anche in Israele, come lo è ancora in corso nelle nuove nazioni che passano attraverso il «boom» della ve­lo­cità del Popolo a poco a poco, dove invece, da tempo, è ar­ri­va­ta, accelerata, negli ebrei.

Con tale sviluppo, che risolve tutti i problemi di ri­for­ni­men­to alimentare rendendoli indipendenti dall’influsso del tempo e regola le forze della fame con regole di gestione tri­ba­le, svanisce gradualmente il rapporto di fede dell’individuo. Il contenuto unico vero più alto dello sforzo individuale è in de­fi­ni­tiva il tronco del clan, e tutti gli statuti e comandamenti, sep­pur rivestiti da anziane consacrazioni religiose, hanno l’uni­co scopo di consolidare sull’individuo un dominio tribale comp­le­ta­mente incondizionato. Anche se la paura multiidolatra di­mi­nuis­ce, la prima perversione della fede resta la fame come essenza di timore che sta davanti ed in ogni ordinaria e tribale dimensione: facendo appassire la radice di tutta la fede e la vita: la propria sua ricerca che abbia nella volontà un obiettivo di un’azione di naturale implementazione.

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All’epoca in cui Babilonia divenne il padrone degli ebrei, solo un pensiero viveva in loro: la ricostruzione dello Stato, la speranza del potere futuro. Ed è stato loro concesso, dopo un paio di generazioni di corteggiamenti e buoni rapporti con la Persia monarca, di tornare liberamente in Palestina, in modo che rimasero sotto il giogo persiano, ellenistico, la do­mi­na­zio­ne romana, pressati e bruciate le vive speranza rimastogli sul loro Messia, mentre nelle intere regioni mediterranee ac­qui­si­vano tesori – anche prima dei tempi del ghetto.

Il nutritori e custodi di questa credenze nazionaliste-governative sono stati i sacerdoti del tempio di Sione, Ezra lo spirituale, e Neemia, il leader laico. Con sensi intelligenti, hanno scritto la preistoria del popolo di Israele per rafforzare l’idea del tribalismo. Signore Jahvè, unico dio del Clan, dai tempi di Isaia riconosciuto come la divinità al di sopra di tutti gli dei stranieri, è apparso, se con o senza alcuna influenza zoroastriana-caldea, come Signore e Creatore del mondo, che scelse, quale secondo migliore creazione, il progenitore di Israele Abraham, cui promise il dominio della terra, poi, come terzo atto della creazione, la particolare alleanza del Sinai con i discendenti di Abramo e ne fece custodi della lega, il clan di Aaron. Così, nel nome dell’orgoglio tribale, il primo posto fu assicurato ai sacerdoti.

E hanno cercato, per ben due volte, di consolidare questa posizione, interponendo, nella precedente caduta, la punizione di Jahvè, su basi interpretative diverse rispetto ai precedenti profeti. Jahvè avrebbe vietato il sacrificio religioso di «tutti i tipi di luoghi», permettendolo esclusivamente quando fosse usato un santuario federale, ma vietandone qualsiasi ap­pl­ica­zio­ne ai singoli individui, riservandolo unicamente ai sa­cer­do­ti, di genere del Levitico … non aveva reso ancora (! Così è stato detto!) come obbligatorio di ognuna delle persone, quale specifica richiesta, il sacrificio quotidiano, dal momento che aveva fatto l’alleanza nel Sinai, di cui, tuttavia, Geremia! non sapevo nulla (Geremia 7:22). E ’stato un peccato degno di vendetta, vizioso da non sacrificare senza un sacerdote e non sull’altare degli altari. Così, tutti i sacrifici in senso religioso, nacquero per il popolo del suo Signore Jahvè, da molto tempo, per ogni alto colle, tra verdi alberi, dichiarati in una sola volta quale seguito dell’idolatria, e furono la ragione per la vendetta, terribile destino, che il popolo cercava. Tutta la storia reale è ricoperta in questo senso, e i «peccati di Geroboamo» – ap­pun­to il culto di Jahvè al di fuori di Sionne – apparirà in seguito duramente come il «peccato di Achab», il servizio di altri dèi stranieri, i più vicini, i precedenti profeti di Buss, incolpati soprattutto per la distruzione del loro statuto interno.

Ciò rende il sacerdozio di Sionne una potente influenza; spiega anche perché, gradualmente, la comunità tribale si ritira in questa direzione, già prima dell’esilio dei contadini, che è finalmente diventata principalmente dei cittadini, fornitori e artigiani.

I contadini dei campi, coltivavano comprensibilmente il culto ancestrale del Signore Jahvè – che in realtà non differiva così tanto dai servizi di altre divinità – ma lontano da Ge­ru­sa­lem­me, sotto gli alberi, sulle colline, accanto a pietre; ma per loro era strano e fastidioso il nuovo emergere, come il più antico dovere, della finta umiltà annuale del pellegrinaggio verso Gerusalemme, e rinunciare all’antica usanza di Dio che si vive nella pietà. Così i contadini cedono, e cadono a poco a poco, alla vita e alla fede della circostante comunità di abitanti non-israeliti, dove la campata successiva di Israele, dove la mobile gente d’affari delle città in viaggio sono stati in grado di essere facilmente religiose, servizi cui importava nulla là fuori, e tuttavia era e restava Gerusalemme il centro della propria differenziata comunità.

I sacerdoti di Gerusalemme hanno parzialmente assorbito i servizi locali, o parzialmente espulso, e il commercio ed ef­fet­tivamente gestito tutte le attività subordinate attraverso la quota di profitto dei Leviti, degli ex vicari, come grande im­pre­sa, fissandone ordinazioni e sacrifici, come esattamente dopo, su questa base tribale, si stabilirà il grande business ebraico.

Ma i sacerdoti sapevano soddisfare in tal modo la pietà locale, avendo ovunque stabilito scuole di diritto in cui tutti, nei fine settimana, leggevano la dottrina di Jahvè, la dottrina che era in grado di essere veramente onorata e riconciliata unicamente che a Jahvè di Gerusalemme. Così, le scuole erano la più efficace pubblicità per gli uffici della stretta comunità di nuovi sacerdoti, urbanamente commerciali e tribali, nel con­tem­po uffici di registrazione di scambi e del commercio, le più antiche borse di scambio. E, in aggiunta ai sacerdoti, l’azione dei fratelli laici come gli scribi, l’educazione e la correzione di letteratura biblica, ancora non abbastanza migliorati dai sa­cer­do­ti,26 che ha trovato il completamento nel Talmud.

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Comprensibilmente, il messaggio del Salvatore su tali poteri, dovette incontrare acerrimi nemici.

In Cristo, che ha combattuto la fede nelle leggi di vendetta e così distrusse gli statuti regolanti il blocco delle anime, eli­mi­nò le vittime dell’impegno a Sionne, che apportava ai sacerdoti ricche prebende, i quali non hanno potuto che vedere la sa­cri­le­ga distruzione dei diritti del loro clan, da odiare e perse­gui­ta­re fino alla morte, oltre la morte. Con loro, gli scribi dovevano sentire e agire collettivamente, essi, la loro reputazione e il loro pane erano basati sulle esigenze di interpretazione di tutte le leggi nelle più diverse diramazioni: come fecero i Farisei, che coltivavano tutto il potere sull’anima, per poi incontrare l’in­va­no imbarazzante, dopo la firma del loro dovere religioso verso Dio e tribù e inoltre, con considerazioni senza impedimenti, vivere facendo affari loro e soldi. Attraverso le parole di Gesù questa struttura di fede è crollata, l’intera vita sembrava mi­nac­ciata.

E aveva, quelli poco mossi da questioni di fede con in mente lo Stato, facendoli lasciare dopo un breve ascolto, grazie all’afflusso della gente comune a Cristo, ben presto deluso dai suoi insegnamenti d’amore, caduta la speranza, di vederlo stabilire il regno di David, ancora una volta il regno di Israele; avendo piuttosto paura degli inconvenienti con Roma, rin­un­cia­rono e tornarono ai loro affari.

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Anche se non da ebrei, ma così la pensavano, terrenamente, saggi uomini di potere, prendendosi a Roma la consapevolezza del vantaggio che il destino della croce del Cristo offre – in quanto il movimento del cristianesimo, trovava ardenti sos­te­ni­tori. Distorcendo la buona novella, deformandone lo spirito, l’Ufficio romano era il migliore aiuto per il dominio del mondo nel pensiero religioso, riassumendo tutte le precedenti paure di idoli, in delirio: la vuota umanità peccatrice è stato in grado di trovare solo da Dio il sacrificio di sé, salvandosi dalla dist­ru­zione.

I primi cristiani speravano, in incomprensione, nell’im­mi­nen­te alba del regno terreno della gloria, in un precedente giu­dizio del mondo; quando né questo né quello sono arrivati, la chiesa si è affermata come un’istituzione permanente – e così attestando l’altra non meno ristretta mentalità. Come eredità dei sacerdoti di Sionne e del patrimonio della romana am­mi­nis­tra­zio­ne, la chiesa ha sviluppato, con insuperabile sag­gez­za, con qualsiasi ed abilissimi giochi parola saputo sedare litigi, sapendo fondere in un tutt’uno le convinzione del Sinai e dei suoi inerenti servizi pagani. La comunità delle divinità con­ti­nua a vivere come una serie di santi per il culto, non si ris­par­mia, al contrario, nei servizi locali che aumentano ver­ti­gi­no­sa­men­te, ma integrati e centralizzati a Roma che se ne occupa con certificati reali e falsi (Decretali pseudoisidorici), ma sop­rattutto con la tenace volontà della sovranità imperiale a tutte le decisioni di fede, e di essere in grado di sopprimere ogni scorrettezza, dando peso alla nuova idea di terrore, l’«eresia».

Il sacerdozio di Sionne, come l’Egiziano, l’Indiano, il Greco, ha vissuto per lo più con l’idea di un sacrificio falso accanto a quello reale, oltre che la bestemmia da trovarsi quando la «giusta» adorazione della divinità veniva messa in gioco; ma la chiesa vive prima di tutto sulla falsa e corretta dottrina, e l’errore di fede è ora peccaminoso quanto prima lo era trascuratezza del sacrificio. Questo perché il sacrificio del Golgata, come un evento mondiale unico, avrebbe potuto avere una unica evoluzione; e sbagliare qui, è stato detto, che sa­reb­be stato svalutato, reso inesistente e avrebbe irritato al mas­si­mo l’ira di Dio, che sembrava placato solo da questa singola vittima, fedele al suo grado di accettazione.

La pretesa di un’unicamente corretto, unico e solitario proclama di fede nel nome di una vecchia gloria, quand’anche consacrata dalla missione di Pietro, ha sollevato Roma, sos­te­nen­dosi contro Bisanzio, era il più importante documento legale del potere della Chiesa, e la dottrina dell’infallibilità era il seguito più conseguente di questo pensiero, il vero erede del Credo in Jahvè. L’autorità suprema ebraica era incompatibile con il dominio del mondo e quindi inutilizzabile nella pro­ces­sio­ne trionfale della sola ragione – l’autorità superiore romana d’altra parte più utilizzabile, in quanto più affine.

* * *

Da questo pensiero superiore: la vendetta di Dio per ogni re­sis­ten­za alla propria fede romana – poi scorreva e dipendeva tutto il resto, il potere, il dovere della Chiesa di regolare la vita mo­ra­le, per punire una colpa morale o per l’espiare tramite buone opere. La confessione ha poi permesso di presentare, a sot­to­mis­sio­ne di ogni singolo, ogni individuo al potere supremo, che così è venuto a completamente rendere servili i volenterosi, naturalmente, e nel contempo creandosi le entrate, in contanti o in influenza, in termini di valore di proprietà o di cont­ro­par­ti­ta al perdono, prestazioni di carattere governativo, economico e spirituale.

È vero che la Chiesa afferma di voler gestire unicamente gli affari spirituali e di voler guidare la vita dell’anima in modo divino, non basandosi sulle cose terrene; ma essa si è da sem­p­re riservata il ​​diritto per definire la linea del confine spi­ri­tua­le.26a Lavori pesanti ed ingombranti e faccende impopolari come l’ufficio del boia, li hanno lasciati come di spettanza al braccio secolare, ma non le nuove possibilità di congrue ent­ra­te – e nell’influenza che sapeva esercitare, avrebbero potuto aggiungervi un potere preminente e benefico – piuttosto, le resero utili alla nuova struttura di occupazione; e lo fa tutt’oggi con le associazioni della stampa e del lavoro. Ma deve ra­gio­ne­vol­men­te ammettere che, come dopo la follia della fame, a tutti, in modo speciale, secondo la Bibbia, è concessa la fede, in realtà fatta da rapporti di vita di natura spirituale universali, e davvero la più infima prestazione né la più materiale sfugge al più alto insediamento di vita; non sarebbe una presunzione quando la chiesa caccia il naso in tutto, molto più pro­ba­bil­men­te crede di essere negligente se non si prende cura di tutto. Perché in questo, la fede biblica è quasi la identica a quella del «pagano»: tutti pretendono pane e benessere da Dio e si in­chi­nano a quella che è considerata la volontà della divinità. Se la fede riguarda il pane, le acquisizioni e il potere popolare, allora la volontà di Dio si insinua nelle cose più mondane, in nome del sacerdozio.

L’agente realmente «pagano», per come la Chiesa è giunta al potere e come essa deve conservare il potere, è il costante riferimento alla vendetta di Dio attraverso l’agonia nell’aldilà e morsi della fame in questa vita, che impauriscono ogni anima con implacabili espressioni di umore del mondo di Dio. Oltre a questo allevamento all’idolatria, integrandola e usandola, la costante volontà, in cambio del pagamento senza ritegno e pudore per lei, di ricreare il perduto favore di Dio. Catturata la gente con l’esperienza della fame, promettendo la salvezza attraverso mezzi che presumono fame di denaro, i mezzi di controllo affamati di potenza a sé atttirati – la chiesa davvero bolla la vita a manifestazione della fame, il bene a parco giochi della fame alla capricciosa mercé divina, l’uomo a lacchè del pane e conduce il suo Signore all’inganno.

Il mondo che galleggiava dal diluvio a fronte dell’anima ebraica e a confronto di essa, prima e più incisiva di tutti gli altri popoli, l’inclemenza del destino della Terra – la Chiesa romana l’ha elevata a portata generale. Fosse tutto andato secondo le proprie intenzioni, i suoi funzionari, sacerdoti, e le loro truppe, religiosi, a poco a poco fuori dal genere umano la stessa «teocrazia» ne avrebbero fatto servi completamente diseredati, trovando la sua realizzazione sotto il rimedio di proprie intuizioni personali di Dio, senza perifrasi, la re­go­la­zio­ne data dalla fame che l’ebraismo cerca attivamente.27 Quest’ultimamente giorno lordamente commerciale, di massa-Stato – non importa di quale razza, semitica o ariana – è solo una forma secondaria di chiesa biblica romana; entrambe sono l’ultima doppia forma di quella immagine del deserto dei figli di Israele, che hanno l’illusione generale di tutti gli altri popoli e gli individui più nitidi di quanto loro stessi sperimentato, e addirittura esemplificati su tutta la linea, ha sollevato il des­tino della fame a ideale.

Come diversa è, contro di essa, la parola di Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo» e ciò che ne fa la sua grandezza è il rifiuto dell’offerta quale inferno ardente per rinunciare ai quali egli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria «in modo da prostrarsi per adorare me», ecco un consapevole pun­to di svolta nella nostra storia umana, il rifiuto dell’ido­lat­ria della fame.

Perché Cristo divenne Gesù?

 

Traduzione Bruno Ferrini

 

Geremia 7:22 In verità io non parlai né diedi comandi sull’olocausto e sul sacrificio ai vostri padri, quando li feci uscire dal paese d’Egitto.