La fede borghese I

Oltre alla visione del mondo di stato d’animo, imposta alle per­sone dai fluttuanti sentimenti di fame, a poco a poco, ac­can­to alla Chiesa di Dio come Stato e la condizione di fun­zio­na­mento monetario, se ne insinuò, profondamente, un’altra. A dire il vero, non è semplicemente la carestia a darne l’impulso; ep­pu­re è un sentimento di impotenza, approfondito dalle con­dizioni economiche dell’anima, che determina il percorso della co­nos­cen­za e dei suoi limiti, anche ai più stretti.

E naturalmente l’efficente disposizione alla volontà ha quasi tutti i passaggi della «scienza» – perché ne è influenzata; è la condizione comune delle imposizioni della fame, che for­nis­ce precondizioni, pregiudizi e punti di partenza ai ri­cer­ca­tori.

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Non è certamente lo «Zeitgeist», lo spirito del tempo, che in­se­ris­ce il suo contenuto nel pensatore, nella rivelazione mistica o «suggestione sociale»; altrimenti non si potrebbero, nel con­tempo, creare strutture di pensiero così contrarie.

No, il pensatore individuale disegna e dà se stesso, anche se conosce e studia i pensieri di tutti gli altri. Per investigare e meditare su di lui, naturalmente, è guidato dall’inibizione della vita dal caos, che sperimenta, in modo diretto, personalmente. Ad un certo punto dell’essere, cerca di vedere la necessità, la connessione di ciò che lo ha toccato, con il resto dell’esistenza; coinvolto da sentimenti di vita, per sfuggirne lo stato di emer­gen­za, vede il sistema mondiale per quanto lo riguarda, e si aspetta che tutti gli eventi si convertano nei valori della pro­pr­ia sensazione con la «valuta» dell’esistenza.

Ora ci possono, dalla parte del pensatore, essere tre po­si­zio­na­menti nei riguardi della struttura temporale. L’uno si pone come vero diritto nel flusso principale della vita con le opere, l’acquisizione, la gestione, la civiltà, e la valutazione: esso non sarebbe venuto a ripensamenti, resistenze non in­com­pren­sibili se non apparse in altri contro la situazione, che è quella di vivere in base ad essa, come l’acqua per il pesce. Tali aggressori, anche se erano in minoranza, come criminali, ere­ti­ci e sovversivi, tuttavia scuotono la validità incondizionata della sua vita. Contro di loro, cerca e trova intuizioni che di­ven­ta­no la giustificazione di ciò che è valido, in potere, e offre a lui, al pensatore, la sicurezza personale della vita. Egli è il fautore del tempo e il suo bisogno di strutture, il portavoce di coloro che vivono nel flusso temporale: così la sua confessione è di grado quasi comprensibile al momento ufficiale pensata come la media efficiente dei contemporanei, naturalmente. Le sue conclusioni fuggono «naturalmente e razionalmente» dal soprascritto dello stato di vita della maggior parte.

Un altro pensatore si distingue dai suoi sentimenti: si adatta male alla maggioranza e al potere del suo tempo: deve unire la struttura lavorativa esistente, in cui per lui non è un posto giusto. Ma poiché è troppo orgoglioso o stanco per re­sis­tere, si ritira da solo. Sceglie come un santuario al di là del luogo comune dell’universo, l’universo e l’alto esaltato nei pic­coli ingranaggi di molti circoscrive il suo modo di pensare il mondo. La maggior parte della gente non lo capisce, i suoi in­seg­na­menti diventano un segreto silenzioso nella cerchia degli altrettanto affaticati.

Né questo né quel modo di pensare portano nel mondo un nuovo senso di scopo. Ciò include la natura eroica dei terzi spiriti, che sperimentano l’errore radicale della struttura tem­po­rale senza speranza e sollevano obiezioni alla propria sof­fe­ren­za, disposti a cambiare lo stato della vita, per ris­veg­lia­re le forze migliori. Non appartengono al recinto docile della fi­lo­so­fia, non guardano la vita in semplice riflessione, ma mostrano nuove forme salvifiche in virtù di una nuova comprensione dell’essere. Questi sono i fondatori della vita e della fede – pre­cursori del Clarismo e della sua gioiosa umanità.

Ma questi appaiono solo nei momenti del più estremo bi­sog­no spirituale, come messaggeri della vita da chiarire. Prima che ciò accada, il pensiero scientifico ne tarpa de­li­ca­ta­men­te la sua esistenza, nel mezzo del ciclo del bisogno e del lavoro.

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Seppur il singolo rimane anche in tutto il suo vigore quotidiano nel procacciarsi il pane, la sicurezza di questo pane diventa sempre meno confortata con il proprio impegno e sempre più dalla vita pubblica, fortemente influenzata da ampi contesti e le rivendicazioni del lavoro. Sempre più variato il lavoro, ra­mi­fi­cato in innumerevoli industrie, più l’individuo si allontana dal cibo quale vero riferimento, la produzione alimentare, più sarà ricompensato con denaro. E il valore del denaro è basato esclusivamente in modo tale che tutta la ripartizione del lavoro si svolga in una catena, indisturbati fino al vero e proprio usu­frut­to – pane, al vestiario, all’abitazione.

Tuttavia, per garantire lo scambio di lavoro, denaro e cibo, sempre più unicamente l’ordine comune sarà in grado, con l’integrazione di tutti, in un insieme comune. Con l’in­te­gra­zio­ne di tutte le leggi fisse, la condizione della vita dell’individuo è, proprio nella massa quando il suo lavoro era indipendente della natura, nell’artigianato urbani e commerciali, questo apparente indipendenza è un tributodi lavoro da subalterno vassallo arrabbiato. E quale condizione di vita dell’uomo, ne determina la sua visione del mondo, le forme in cui il suo spi­rito ne afferra l’esistenza.

L’agricoltore contadino adora le divinità del cielo, perché sono quelle che gli hanno procurato il pane, la gente cittadina ha onorato gli dei, a condizione che fissino lo stato del comune cammino. La prima, più alta e «santa» condizione della vita diventa sempre più la legge, alla quale misura e confronta la divinità.

Questa è la prima sensazione della nuova condizione.

Inoltre:

Il contadino vede in tutte le forze e le cose della terra, in­son­dabile regola segreta. Ma per l’operaio – che è un prossimo futuro cittadino – le cose della terra, in base alla sua ac­qui­si­zio­ne, non sono che unicamente materia prima, che ha ela­bo­ra­to che per farne uso: i minerali, pietre, fibre di legno, cuoio, lana e vegetali, devono tollerare il suo agire, per esplorarle, usarle riccamente.

Così, il mestiere spinge ad esplorare la natura, più pro­fon­da­men­te e più essenzialmente che mai fu nelle arti curative e magiche di sacerdotesse, sacerdoti e medici.

Gli dèi della legge in tanto strutturate quali padroni legali, inizialmente armati in guerra, poi l’urbana vita commerciale dello Stato, spiazzano le vecchie forze della vita agricola, le de­tro­nizzano, ne svalutano il corso naturale di essere vivi e mis­te­riosi, decaduti a vittima della ricerca che ha esaminato lo spirito del lavoro. Ma essi stessi, questi dei del diritto vennero – interpretati da miti del tempo dai costumi matriarcali nell’ ar­bit­ra­rie­tà di lussureggiante luce – in modi incoerenti con i prin­cipi fondamentali della stabile vita di lavoro; sono di­ven­ta­ti poco più che dei foschi fantasmi immorali. Lo spirito spe­ri­men­ta­tore cercò una base più solida ed «eterna» per il lavoro e la vita.

In primo luogo da parte del mes­tiere –, spogliato dalla pia visione della natura degli agricoltori – in un rigido ordine per­so­na­lizzato di lavoro nella vita pubblica, respingendo le cap­ric­cio­se divinità, i cittadini di ieri e fino ad oggi, hanno pensato di trovare sicuri poteri di vita in tutto l’ambiente circostante. Abi­tuati a legge e all’ordine, spinti dal desiderio in qualsiasi mo­men­to per garantire le vendite, privi di propria volontà, la re­go­la della struttura di potere impersonale delle cose, che egli chiama «natura», la fa diventare un sistema giuridico.

Così l’immagine della «legge della natura» entra a far parte del mondo.

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La fede del cittadino lavoratore è la scienza.

A dire il vero, le prime ricerche sono andate più «filo­so­fi­ca­mente», rimuginando per trovare il profilo della vita. La sin­gola ricerca – fatta di paragoni «sperimentali» mancava an­co­ra, ma è significativo che i primi tentativi di comprensione scien­ti­fica del mondo – in Grecia – la «materia prima» dell’e­sis­ten­za si basava su un’unica traccia: tutto nel senso dell’ar­ti­gia­nato, su cui si basava la nuova condizione generale. Non c’è da stupirsi che questa scuola di pensiero abbia di recente im­ma­gi­nato il mondo, con la vittoria della grande industria, come un sindacato, per essere in grado di comprenderlo quale «mac­chi­na» – come una mera forza di azionamento, misurato in termini di «energia». A quel tempo, era la robaccia-sostanza da cui l’artigiano faceva cose che sembravano importanti; il ma­te­ria­le da cui è composta la vita, «Xyle», il legno, è il ter­mine greco per «sostanza primordiale».

Ci sono i primi quattro filosofi, dello Ionio, i più anziani.

Talete, è nato sulla riva del mare in Mileto, sull’aggiunta attirato dagli scambi di merci per arricchire la città natale per alimentare i cittadini, ha sentito la materia prima nell’acqua. Eraclito di Efeso lo vide nel fuoco, l’aiuto al lavoro di un fab­bro. Anassimene, figlio delle isole dell’Asia Minore, lo cercò nel leggero vento e respiro del mare. Per Anassimene di Mileto, nell’infinito senza forma e indeterminato, intendeva trovare il fondamento primitivo del mondo delle forme. Nessuno era in grado di convincere gli altri, non importa quanto fossero uniti nella fede nella sostanza.

Il successivo passo filosofico fu ripreso dallo spirito del lavoro: si capì che si trattava più delle forze motrici che delle cose, che si lasciava modellare apaticamente in questi e altri modi; naturalmente, le forze non erano meno cieche.

Il mo­vi­mento di una coincidenza senza senso divenne il potere dell’e­sis­tenza di Democrito; gli piaceva la gente, gro­vig­lio con pro­fondo disprezzo sentire lo stesso di ciò che aveva osservato nel tornitore di vasi: come le parti dell’argilla si las­ciavano sos­pin­gere, materia separatamente e in com­bi­na­zio­ne, con nessun obiettivo specifico – «atomi», un sacco di particelle ciecamente gettato insieme, la vita gli sembrava valesse che la pena di es­sere derisa. La stessa inutilità interiore la risentiva con pro­fon­do dolore il suo apparente oppositore, lo stesso cita­to filosofo del fuoco, Eraclito: «tutto scorre» (πάντα ῥεῖ) – che è stata la sua condanna della vita, l’incostanza eterna, l’eterna re­cip­ro­cità, viste nello sfarfallio delle sue onde e fiamme. Erac­li­to appartiene alle due linee strettamente correlate di pen­sie­ro: e così è anche di fatto per Empedocle, che nell’affollamento di atomi dei quattro elementi fuoco (πῦρ), aria (αἰθήρ), terra (γαῖα), acqua (ὕδωρ), nell’affollamento di gente in città vide il controgioco di attrazione (amore) e repulsione (odio).

Poi si passò ad una sempre minore valutazione delle forze determinanti.

Radicata, la comunità protettiva degli agricoltori, in un lavoro costante, lo stato Signore conquistatore nel coraggio, il mestiere e mercantile voluto dalla frenesia della città, è so­prat­tutto nella testa di calcolatori sapiente dei mezzi per com­bat­tere la fame.

Non il materiale cosmico, come sembrava a prima vista troppo artigianale, non il movimento cieco, erano la vera base della vita: misure e relazioni erano in base alle quali la mano creatrice plasmava le cose e lo stato dei cittadini; questo è ciò che ha visto Pitagora. La misura e l’ordine, tuttavia, erano il lavoro della mente; oltre i nudi semi del mondo a dirigere il mondo c’era la mente, la vita percepita da Atene, il saggio mo­vi­mento commerciale, così ha visto e ha affermato Anas­sa­go­ra, e certamente l’approccio è in sé stesso onorevole e da ri­co­nos­cer­gli conoscenza più profonda.

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Erano una visione della volontà lavorativa, consapevole di bisogni e forze sobrie, erano la credenza del piccolo lavoro di comunità – questi primi tentativi della scienza di trovare con­nessioni e regole dell’esistenza. Questi pensatori più an­zia­ni provengono da una volontà lavorativa strettamente vin­co­la­ta per l’onnicomprensiva esistenza «legale».

Diversi i più giovani.

Questi fatti ravvicinati non sono sufficienti, e l’artigianato è tutt’altro che spirituale. Perciò partono dai propri sentimenti dell’universalità vincolante e combattono contro la riluttante abbondanza della vita; con mille dubbi, cercano un mondo pu­ra­mente spirituale, la ricerca dietro il mondo confuso delle impressioni sensoriali. Chiaramente in essi, come aveva re­cen­temente affermato il Buddha, c’è la fatica della volontà, della vita e della trasmissione popolare.

Ciò che Eraclito implicava: il contrasto tra forma e con­te­nu­to, diventa la confessione principale della scuola Eleatica, certamente in un senso esattamente opposto. Eraclito rico­nob­be come permanente la forma, come sempre cambiando il con­te­nuto, come verità della vita, il flusso irrequieto di eventi, che ingannevolmente nascondevano solo le forme apparentemente costanti; al contrario, gli eleatici negavano la vita esterna nel suo flusso mobile, nella sua molteplicità: «la freccia volante è immobile», era il suo motto significativo. La vera ragione dell’ e­sis­tenza sembrava a questi primi «monisti» coscienti solo della rigida unità totale, irreale ogni molteplicità, crominanza, movimento. Ma in un modo o nell’altro: solo una metà dell’e­sis­ten­za era tollerata, l’altra rifiutata quale apparenza.

Con parole pesanti, con sottili conteggi, l’eleatico aveva fatto i conti con il mondo ed i sofisti si erano impossessati del loro rimedio. Con la rapida legittimità del commercio e del commercio di Atene, tutti seppellirono la loro certezza di vo­lontà.

«L’uomo come misura di tutte le cose!» Non è stata la conoscenza di sé dell’essere proprio che ha esperienza ad ogni livello, che essa diventi un desiderio anelato dalla massa e di obiettivi di sviluppo più in là che attinge da sé stesso, con l’aiuto e la guida divina ed esigono che forme di spirito siano gradi di volontà sperimentati. Non era anche l’intuizione di quanto profondamente influenzati dalla volontà e dalle cir­cos­tanze di vita della vita reale del giorno siano i giudizi di ogni uomo, quindi quanto prudente dovrebbe essere la mente nelle asserzioni generali. Per loro, i sofisti, ciò che significherebbe il più alto standard di vita, sarebbe il volubile cittadino di Atene. Lo stato di uguaglianza di massa inflazionato in questa scin­til­lante proposizione è inconfondibilmente molto più forte di quello che germina nel coraggio della prova, nella modestia evolutiva in esso.

Socrate ha fatto ben poco per cambiare questo stato di es­se­re in uno stile di vita (democratico) di governo di massa, tanto poco quanto lo faceva rabbioso. Egli voleva insegnare la virtù: la riteneva, come sofista convinto, per l’insegnamento e l’apprendimento ed universalmente comunicabile: poco o nulla sapeva dell’interiore maturazione dell’anima che deve spe­ri­men­tare a poco a poco i propri valori: ha ricoperto la virtù di una unica verità universale della volontà e anzi per sot­to­mis­sio­ne alle leggi della vita civile – da qui la sua lotta contro tutti i miti degli dei dall’arbitrarietà voluttuosa. Tuttavia, ha elo­gia­to il suo «daimon», la voce privata dell’avvertimento. Così reale verità germoglia in questa esperienza – così reale e in­do­vi­nato il potere di maturazione di chiarimento spirituale, così sia per Socrates intuizioni non la vita: essi sbriciolato il senso generale sterile. La sua pubblicità emozionale personale e po­ten­za – di nuovo solo una testimonianza di possedere e pro­pr­ia entità – soffocando sotto l’eingemeindeten volontà, in una stima errata della parola e il concetto e l’apparente pari valore degli esseri umani.

Quanto dello spirito ateniese di assemblee popolari co-determinato tutte le condizioni di vita, nella la volontà di tutti, il pensiero di Platone non si rivela un bambino del popolino, non un uomo del popolo, la dignità a suo completamento, era ancora l’unica cura in tutta la regolante sensazione generale. Gli individui quali esseri propri, a lui poco o nulla dicevano come d’altronde anche una mente di massa: solo le «idee», gli archetipi eterni delle cose hanno una loro esistenza, illusorio aspetto è tutto quanto risulta individuale, i singoli tipi ge­ne­ra­li­tà sempre prevalenti devono incondizionata sottomissione. Platone ottiene la sua prova tanto quanto con il sofisma di altri sofisti, attraverso il gioco ponderato di formule concettuali. La differenza è semplicemente il che le sue idee sono in trono «in­fe­riore» realtà ago moderata distanza al di sopra della con­fu­sio­ne di – che l’unità percezione, il sostentamento di casta e non lo trovano in mezzo alla folla: le idee sono caste, il suo stato modello basato sulla casta, È un’abitudine di scelta, piut­tos­to un tentativo di risorgere della leadership di massa degli uomini, ciò che Platone desiderava; non per niente è apparso più tardi in pensatori come Mosè di Ellade – un fondatore di tributi come questo, la volontà e la comprensione richiede che per sua integrazione nella stretta struttura sopraelevata, per certo, nessun Jahvè parla con Platone. E ciò che vive in lui come la migliore eredità ellenica diventa la verità nella va­lu­ta­zione chiara dell’arte: il significato eterno delle forme.30a

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Platone mostra così nel pensare la grande lotta pubblica tra la violenza signorile e il potere del popolo, alle quale finalmente, dopo tante città che hanno sperimentato questo destino, soc­com­be­rà dissanguata, durante le guerre del Peloponneso, tutta la Grecia: il diritto Signorile che apparentemente l’avrà vinta con Sparta, resterà oggetto dei diritti di massa, anche da vin­ci­tri­ce – un’assurdità quanto il potente artigianato e le imp­re­se del commercio nel crescente numero di persone – fosse, seppur gradualmente, struttura generale «oligarchica», il contorno della vita diventa l’ascesa dell’anima dell’individuo nemico; Platone lo prova.

In Aristotele, il suo avversario, si riflettono i risultati di stato successivi, per quanto appena segnano i percorsi e limi­tano la voglia di vivere della persona, le sue esigenze di vita e le realizzazioni di vita. Il grande impero ellenico di Alessandro il Grande ha costretto la particolare struttura demoralizzata di tutte le città elleniche e piccoli Stati a unità che già mo­men­ta­nea­men­te hanno prevalso nella tempesta persiana e ora dov­reb­be­ro essere aree attive nei guadagni nel lontano territorio economico, l’intera cerchia del Mediterraneo orientale.

Lo spirito del «ancien régime» in Platone, doveva cedere, entro cui ciascuna forza attiva speciale è solo uno strumento, del tutto in Aristotele come «imperialista», all’idea di massa quale tessuto economico. In un’entità sempre più piccola – insegna Aristotele – sono le cose interconnesse che fanno, il più individualmente, condizionate dalla specifico terreno, forme più generali di essere, sono la più alta forma del primo entusiasmante spirito, da cui il potere essenziale, per tras­for­mare le possibili forze «potenziali» in «quelle attuali». Li fa risvegliare alla realtà e, scorrendo da un livello all’altro, crea l’esistenza attiva; nell’individuo solo l’universale è veramente reale – la realtà essenziale («entelechia») della singola cosa è presa in prestito dal generale.

Ciò a che ottusamente svolte, le prime comunità di pro­te­zione «animistiche» sentirono come germogli era qui, dopo tutto lo sviluppo intermedio, una visione del mondo della gran­de comunità di acquisizione unita ed unificata: come appare impulsivo in tutto ciò che la forza attiva, ma agire le cose e le forze solo in unione assoluta, sono obbedienti ai rego­la­men­ti leader e sono in realtà abilitati da loro a formare coloro che già esistono e a rendersi conto di prenderne a prestito.

Il futuro Stato comune fondato sul lavoro in termini tri­bu­ta­ri, da vassallaggio, come da parte dei compagni rossi, l’hanno tentato gli imperatori di Bisanzio,31 l’enorme stato di potere coercitivo del «despotismo» con o senza punte personali – pre­fi­gurato nella visione del mondo di Aristotele, attraverso i ter­mi­ni e le arti più svariate e sofisticate. Le cose sono e non pos­sono fare altrimenti che ciò che la prima forza di stimulazione generica le induce ad essere: in effetti, utili e reali, causano prestazioni e lavoro, che, dall’eternità sono presenti come potenziali – sono materia prima da cui le forme sono espresse. Nella misura in cui gli individui propri non sono che atomi, solo atomi di potenza, non propagatori dell’esistenza, ruote diligenti del lavoro del mondo quale meccanismo che si tras­for­ma in eterno, senza risultato per il perno centro rigido-dor­mien­te, il suo primo stimolo, il suo capo – praticamente inutile come se niente fosse, un auto-nulla, spinto inesorabilmente dalla corrente di necessità predeterminata. Il vecchio potere mitico del destino di «Ananke» (necessità), oscillando sopra gli Dei continua ad agire qui, così come la successiva fede ecc­le­sias­tica dei clamori della «predestinazione».

Eppure qui, come in Platone, un pensiero preclaristisco trova il germe necessario a concimare e coltivare la profonda conoscenza dell’essere proprio.31a

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Strettamente considerato, il mondo di Aristotele è la visione onnicomprensiva, in realtà l’ultimativa visione del sentimento del lavoro accomunato – altrettanto valida per la civiltà sin­da­ca­le di oggi e di domani, come allora della grande – Ellade. E’la conclusione non solo del pensiero espropriato «antico» ma tut­to decrepito: i pensatori medievali del «realismo», che ve­do­no gli esseri divini fautori e forze di impatto nei concetti generali, lo sono altrettanto i suoi compagni di mente come Leibniz, Kant, ed i positivisti, sebbene ciascuno di loro, da altri punti di esperienza, contribuiscono alla comprensione del mondo, suo­nan­dola di persona.

Che cosa è venuto dopo Aristotele, fecondato da vita, sci­en­ze umane e di terra di lavoro ellenica, è stato di allon­ta­na­men­to profondamente significativo dalla vita reale, di fatto era, incapsulata, quasi monastica autoconservazione della ri­ma­nen­te volontà, egoistica rinuncia di fedi volatili liberamente scelte tra la trasmissione di affari aggrovigliati. Piacere alle rinunce e le libidini del rimestamento animati tutti, i successori spi­ri­tua­li dello stoico Zenone di Tarso, di Epicuro e degli scettici cui l’obiettivo terreno, la vita contemporanea, è stata davvero come occupato da una battuta d’arresto non più sradicato nell’ essenza, simile al tempo presente. Se gli uni seriamente e altri con gioia e, meno significativamente rispetto a tutti, occupati nella rottura tra atti di volontà e la di visione spirituale nella loro fiera rinuncia, hanno anche descritto l’intera vita pubblica dubitando con disprezzo una prossima vita. Tutta l’opera è stata senza cervello, e diventata inutile, un mero settore ener­ge­tico, ha fatto del breve prolungamento della vita, come si conviene all’atomo della prestazione umana, degli individui espropriati. La mancanza di spiritualità della vita pubblica di massa, paralizza dal suo morso la vita individuale, sradicata, testimoniano tutto, troppo, l’immagine del tempo di allora e poi – di oggi.

I neoplatonici erano già piuttosto coinvolti in un processo di ricerca di una nuova visione del mondo, dal momento che tutto il mondo ellenistico romano raggelava nel disagio. A dire il vero, hanno voluto includere il quartiere delle arti del mondo mediterraneo allo stesso modo come ha fatto il collettivo dell’ Im­pero Romano con i gruppi di lavoro; volevano ri-poten­zia­re i mezzi di sussistenza, ma ricucire con tutti i tipi di pezzi orien­ta­li della mente, con ebrei e parsi, la saggezza «gnostica» per diventare, fragile costruzione di cocci, il quadro mondiale. Incerta, oltre quanto anche Platone aveva intuito, era per loro diventata la vita esteriore, in cui vedevano solo un’uscita con un Dio elevato singolo essere originario e questo esistenza apparente è stato richiamata lontano dall’uccisione dei sensi per tornare nell’apertura primordiale, l’agonizzante e stris­cian­te singola entità. Nel neoplatonismo, la mancanza di speranza di un esaustivo esaurimento della vita fluisce, inadatta per qual­sia­si comprensione ed icoraggiamento della volontà, pot­reb­be essere, come questo vecchio e così «moderno» in­seg­na­mento che mostra chiaramente la volontà quale malattia del singolo che ha perso qualsiasi bersaglio d’azione significativa.

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Direttamente nato da queste precedenti considerazioni, il nuo­vo movimento preclarista, la «Teosofia»,32 in cui il «gnostico» e le influenze «buddiste» si intersecano;e non potevano avere l’influenza se la volontà non fosse esaurita, tanto oggi come lo era in quei tempi.

Indubbiamente, la teosofia, anche nella precedente cos­tru­zio­ne del pensiero, è una vera e propria sollevazione contro la semplice credenza nel materiale e nell’utilità – potere genuino è la credenza nella rinascita. Ma le sue radici essenziali nella debolezza di volontà ha testimoniato che, a loro parere, tutto emana da individui di una terra primordiale e torna alla terra originaria. Quindi manca il vero impulso degli eventi mondiali. Il mondo dei sensi si applica solo come errore ad errore, l’u­ni­co potere di vita è l’espiazione, la vita e le vite passate collegati tra loro, il «Karma»33 – le «gesta del destino», che, come il tasto del fare giusto e sbagliato di una vita con la felicità o l’in­felicità si compensano successivamente.

Così lo sviluppo del pensiero è – distorto dal delirio di pros­perità terrena o il fallimento da sopportare, significa sop­rannaturale giustizia assoluta – a causa del mancato riconoscimento della natura intrinseca e la realtà del caos.

Questa sensazione esorta la gente del posto, sballottati ed impotenti nel caos della vita, a cercare al buio un consiglio o una frequentazione spiritistica, e spinge la gente a tornare indietro all’«occulto» demoniaco, dove ha chiarito, da troppo spesso spiriti immaturi, i propri fantasmi incoraggianti la sua delusione. La Teosofia preclarista, giudicata nel suo insieme, è un prezioso desiderio dell’anima umana di liberarsi della gra­vità della Terra.

Ma nei loro professanti, la volontà profonda, che riconosce consapevolmente se stessa, in tutto il mondo, delle forze con­f­lit­tuali dell’esistenza, c’è carenza di volontà. Per o contro di es­sa – la porta a lottare con il vero modo di vivere. In senso rea­le, sarà, sarebbe, impossibile condividere l’opinione che l’idea è illimitatamente potente creatura e potrebbe con i desideri, da sola, essere abbastanza forte per anticipare i livelli di maturità. Le sof­fe­ren­ze, i mali, i difetti – se stessi o alieni – devono es­se­re pensati come mere apparenze, audacemente.

Questo desiderio illusorio, che è l’idea principale della «Christian Science», ma permea l’intera Teosofia preclarista, contraddice inizialmente ed apparentemente il credo del «kar­ma» secondo questo, la sofferenza, come il piacere, è reale e inalterabile – così come i pensieri di sofferenza, angoscia, di­fetti. Ma la dottrina: i pensieri sono potere – vede la sof­fe­ren­za di ogni tipo come un pensiero erroneo. Dopo di ciò, il karma dovrebbe anche essere cambiato cambiando i pensieri. Tut­ta­via, la dottrina del karma promette solo il cambiamento per coloro, in una nuova vita.

Tuttavia, questa contraddizione ha la sua radice comune nella fragile volontà, che non ha il potere di dominare le cose in modo graziato e maturo. Così esso trova una doppia scusa per la sua erronea astensione: le lamentele che lo spronano, erano così irreali da, in ogni modo, certamente sostenere alcun cambiamento – o erano invariabilmente voluti né previsti in anticipo, quindi non potevano essere cambiati. E questa doppia scusa fluisce nell’unica realizzazione: secondo le azioni della vita precedente, sia essa il paradiso o l’inferno, auto-acquisite dall’uomo attraverso i suoi pensieri.

Ma come si giunga a tali pensieri particolari da parte di persone provenienti da azioni speciali in cui tutti gli individui provengono da un’origine divina, resta del tutto in­com­pren­si­bi­le, tanto più se – i pensieri sono energia – che lo spirito originario di ogni male, ogni sofferenza, ogni errore, tutte le carenze della vita individuale, ripensandoci, potrebbero essere immediatamente eliminate. Dal momento che questo spirito originale non lo fa – come l’esistenza attesta – che o non può, lui è un diavolo o un auto-carnefice, in effetti pro­vo­cherebbe, attraverso i suoi pensieri, agonia, tutta la miseria dell’e­sis­ten­za. E come sarebbe nato questo karma di Dio?

Di questa antichissima contraddizione, solo il Clarismo porta ad una chiara soluzione del dilemma.

Certamente affatto, nessuna soluzione rappresenta l’opi­nio­ne: che a poco a poco anime «emanate» hanno sofferto delle loro cattive azioni e penosi pensieri nella massa, mentre si muo­vono allontanandosi dalla prima causa, fino all’estremo passo rappresentato dalla rimozione di Dio, dopo di che, tor­na­no alle azioni «buone» e «pensieri felici», fino alla riu­ni­fi­ca­zio­ne con Dio.

Dal momento che rimarrebbe di questa terra divina che un inutile, crudele, gioco diabolico con esseri immaginari nella sua infinità, la cui unica realtà è il loro tormento: prima che questo essere immaginario «emana» i tormenti, e li fa defluire, non sono nulla, dopo che la natura li ricupera, a loro volta sono e rimangono nulla – in mezzo, ma sono l’afflizione di centinaia di migliaia di fasi della vita e di tutti i suoi incrementi di corsi delle vita, di nulla è aumentato lo stato eterno di unità pri­ge­mia, né più né meno di quanto è stato da sempre, nell’eternità. Questo è vero anche per Monismo.33a

L’errore radice profonda del desiderio di fede Teosofica è la mancanza di volontà, che si chiude a possedere, con im­ba­raz­zo, per l’ispezione da sé.

La sensazione Teosofica è come qualsiasi grado volontà espressione forma mentale sia data; pertanto, è secondaria al punto di cercare di dimostrare la loro storica prima ap­pa­ri­zio­ne. Naturalmente, è possibile credere che il teosofico «Arma­ne­si­mo» è la prigemia visione segreta della cosiddetta «quinta» razza, l’ariana, che era stato portata da esso per l’India quando ha dovuto lasciare la patria oltre-nordica, espulsi dalle gla­cia­zio­ni. Avvolto nella leggenda, ha portato più vicino alla gente, l’Armanesimo destinato a rappresentare il Valhalla quale wo­ta­ni­ca fede celata nelle canzoni runiche.34

Solo che la fede del Valhalla35 aveva la necessità di essere ancora più forte del suo nucleo «armanico»: questi teosofici insegnamenti dei definiti ri-ritorno al «tutto padre» dopo ciclo senza scopo di rinascite esenti dalla creatività di propria vo­lon­tà, senza la quale gli ariogermani mai avrebbero realizzato le grandi conquiste e fondatori di Stati; ma probabilmente è possibile che gli eroii di felice fede ariana gradualmente ebbero in tempi più opachi e nature più deboli di volontà di essere indotte all’Armanesimo e quindi divenne possibile l’enormità in pieno segreto – di affidarsi agli ebrei allorquando è stato vio­lentemente introdotto il Cristianesimo. Il «Kabbalah» si sup­pone che contenga questa dottrina germanica primitiva nel­la forma ebraica – secondo Guido von List.36

Può essere.

Ma questo è l’Armanesimo testimoniato come una livella a bolla che mette confusamente vicino all’Ebraico, e solo la con­fu­sio­ne mentale sradicato può portare ad un tale av­vi­vi­na­men­to, di modo a che antisemiti ora adorino l’Arma­ne­si­mo come origini prigenia, raccomandalo come il salvataggio contro il po­tere ebraico, o sono semplicemente fratelli ostili?

Con tale saggezza, si fanno chiamare armani, buddisti, ma­nichei, gnostici, neoplatonici, cabalistici e non so quant’alt­ro, affondando la formazione di volontà nella vita. Oggi strappare da questo vicolo cieco, scuotere la civiltà da questo rilas­sa­men­to, lo può unicamente che con il saluto di una fede limpida e allegra del proprio essere, claristicamente riconosciuta la fede di Cristo che si dispiega nella verità tutta profonda germinata, come bellissimo chiaro fiore, dalla Teosofia.

* * *

Da millecinquecento anni fa c’erano due forze contrapposte che sono state interrotte con il blocco della volontà.

Uno era il messaggio di Cristo che ognuno anima il suo valore, un eterno, premiato e tutto infiammato cui assetato di giustizia, così nuova vita nelle anime degli oppressi, gli schiavi.

Accanto a loro arrivò, come processo storicamente rinnovatore, il giungere dei popoli nordici, freschi, che erano ancora pieni di eccessi di volontà. Quanto poco erano idonei per una rinuncia ai sensi, la dottrina della chiesa, molto a loro adatta, ma, in tutta la distorsione, il rapporto libero con Dio, essi lo avevano venerato da sempre come «Onni-Padre»; con o senza la Teosofia armaniana.

Naturalmente, la forza dei tedeschi in sin troppo disposti a fluire nel potente letto preparato della struttura romana, e quin­di si ritrovarono nella Chiesa di Roma, con il Signore e Maestro.

Ma con ciò, la chiesa si assunse il compito storico-mon­dia­le di consegnare l’antica eredità intellettuale a nuove forze dell’ umanità.

Purtroppo, questo non è accaduto, né tatticamente né in gran senso umanamente, ma che in un piccolo egoismo sor­nione con tutta l’eredità di veleni conditi dal delirio della fame – cosa che è umanamente e terrenamente comprensibile. Quin­di, affatto per la salvezza dei nuovi destinatari.

Nell’impegno di proporre il messaggio di Cristo nel loro culto, si trovarono a traghettare il riflesso della bellezza sacra dell’Ellade – tesori dei vecchi tempi e dei nuovi, per cui il tempo è giunto soltanto ora per essere riconciliati: questo è il Chiaro Messaggio che continua ed esegue ciò che la Chiesa ha trascurato.

In aggiunta a questo grande doppio suono della vita uma­na di un tempo, immerso nel modo di pensare del mondo ecc­le­siastico, il ritmo più fresco della filosofia attraverso di esso, la Chiesa non era un semplice messaggero di fede e di culto – ma anche il rappresentante ereditiero del potere era che struttura comune, che Roma, sebbene sviluppata dalla sua stessa natura, ma come una visione del mondo del primo im­pe­ra­tore, l’in­tel­let­tuale Alexandro il macedone, fu pro­nun­cia­to da Aristotele.

La sua struttura di pensiero, è la bibbia di sentire la fede come presentimento – ma fu la maturità romana del mondo ellenistico che ha avvicinato lo stato del giudaismo conc­lu­den­do il messaggio di Cristo in realtà annegato fin nella Chiesa. Nel pensiero dei Padri della Chiesa, che ha respinto come ere­ti­co il «gnosticismo» neo-platonico, Aristotele ha superato an­co­ra una volta il suo avversario Platone. In precedenza il Cris­tia­ne­simo aveva più liberalità nel confronto delle opinioni in gio­co, Origene era quasi platonico, ma quando il Cris­tia­ne­simo è salito al potere e anche – come Chiesa di Roma – era diventato uno Stato di potere, tutti gli insegnamenti di un unico dovette rappresentare; Origene divenne un eretico.

La scienza chiesastica, da «scolastica» è molto aristotelica: la stessa sensazione di uno spirito universale globale, l’in­di­vi­dua­le singolo senza alcun rispetto, e tuttavia sottoposto all’ob­bligo delle prestazioni – questi i contatti che legarono Aris­to­te­le, Paolo, Agostino e Tommaso d’Aquino. Il loro modo di pen­sa­re non era né pagano né cristiano, né ellenico né romano, ebreo o germanico – non era che un sano buon senso. Questa qualità non è propria ad una particolare razza, è stata presente anche nel giudaismo e nella romanità quale uno stato schietto di volontà precoce che ovviamente è dove il potere terreno la usa consapevolmente.

Quindi, la fede biblica, supporto dal insegnamento di Aristotele, doveva ot­te­nere la più grande vittoria nel pensiero romano.

La fede borghese II

 

Traduzione Bruno Ferrini