Il pensiero della giungla

Se la fame è la causa del risveglio della consapevolezza parti­co­lare – dovrebbero possederle anche le forme di vita più primi­tive?

Certamente! Sempre ché giunga alla «fame», alla per­ce­zio­ne della fame.

Non è identificabile con la consapevolezza l’incosciente bisogno di cibo, ma piuttosto un sentimento di separazione, di discriminazione, di auto abbandono; tuttavia, il semplice meta­bolismo non è sufficiente a risvegliarlo, deve subentrare un livello di mancanza tale da indurne una resistenza. Questo «gra­dino» di resistenza definisce l’inizio della fame che a sua volta introduce la consapevolezza e la volontà alla nutrizione. Pertanto, esclusivamente gli esseri viventi che sono in grado, gradualmente, di definire con il loro metabolismo il livello di bisogno, possono avere una consapevolezza della fame.

Esseri viventi che sin dalla nascita o poco dopo rag­giun­gono una completa mobilità, sono in grado di dar seguito auto­nomamente e senza difficoltà ai più minuti stimoli e reazioni; molto prima che creino un disturbo o danno al metabolismo, essi vengono indotti a far crociera nelle zone alimentari. Non appena è raggiunta la frontiera della fame, subentra anche quella della sazietà; pertanto non succede nulla che venga vis­suto. La stessa cosa vale per gli esseri viventi stanziali, le piante; sempre circondate da nutrimento che fluisce verso di loro senza che se ne debbano occupare attivamente, sebbene le radici si dipanino in cerca di acqua.

È che con gli uccelli ed i mammiferi, animali superiori, che si realizza la fame. Il neonato non è da subito dotato della mo­bi­li­tà, il metabolismo incontra un individuo sprovveduto, agis­ce insistendo sulla consapevolezza e rivelandosi come «fame», riflesso determinato di una esistenza indeterminata, sentendo la differenza; piangendo miseramente, i piccoli testimoniano lo stato di disturbo, la divisione dell’esistenza.

Ma è giunta ad una coscienza particolare, una con­sa­pe­vo­lezza, e sempre ritorna ad essa, nel mentre che un’altra es­pe­rien­za, la paura della morte in caso di un’improvvisa minaccia alla vita, che momentaneamente lancia uno sguardo alla con­sa­pe­volezza, è comunque troppo fugace, e quindi non ha la stes­sa, continua influenza. Più tardi, naturalmente, nella vita su­pe­rio­re, le fugaci sensazioni, la fame e la paura si fondono, cres­co­no spaventosamente! eppure, anche nella «paura di Dio» e, infine, nella «paura morale», la fame è sempre il tono ve­ra­mente determinante.

Probabilmente, quindi, il sentimento particolare inizia nell’esperienza della fame dell’animale superiore, purché nella sua giovinezza; ma proprio perché non è in grado di procurarsi il cibo, la cura donata dei genitori è la causa a lungo per il ris­tag­no della vita interiore. Solamente quando la giovane crea­tu­ra, nella libera dominazione degli arti è finalmente las­cia­ta a se stessa a cercare il cibo, cresce la coscienza.

L’essere, che deve muoversi per assecondare la fame e usa­re la propria forza, impara a muoversi liberamente, a sentirsi autonomo – come una forza attiva in mezzo all’ambiente.

Questa condizione si approfondisce nella misura in cui gli è necessario superare laboriosamente la resistenza: l’ambiente diventa l’oggetto – e l’autentico segno della mentalità animale rimane: la valutazione dell’esistenza come pura forza esterna.

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Ancor più sale la soglia della consapevolezza, quanto più si al­lun­ga il tempo alla maturità nella crescita del giovane e la cura da parte dei genitori prende sempre più il loro impegno.

Il giovine umano richiede pertanto cure più lunghe, ap­pa­gate dal fervore. Deve imparare due cose prima che possa ali­mentarsi: usare le mani assieme ai piedi. C’è necessario ancora molto tempo e per la madre abbastanza per subire una nuova relazione amorosa con una nuova nascita, prima che l’ex bam­bi­no sia diventato sufficientemente indipendente da liberarsi in propria attività indipendente, e fosse non più bisognoso di ulteriori cure materne; ma, così, lo sforzo materno si rad­dop­pia e diventa per le madri un peso.

Lì la madre deve trovare a fronte delle sue cure costanti che dimostra ai bambini, la cura costante del marito. Se quest’ ul­timo non proseguiva avanti e avanti nell’egoismo, allora l’accresciuta carenza di cibo costringe la sua forza in un corso mutato, il suo spirito ad ampliare l’intuizione, che, tuttavia, presto diventa una maggiore chiusura nei confronti della pro­pria consapevolezza.

Se l’uomo era stato in grado di consumare la preda di volta in volta, oramai lo farà nel luogo in cui la donna affamata, l’af­fa­mato mezzo cresciuto, lo stanno aspettando. Se in precedenza aveva solo bisogno di trovare solo il cibo necessario per la fame del proprio corpo, ora deve provvedere alle provviste, in modo che la sua gente non muoia di fame mentre insegue la ricerca del cibo. Ora deve fare prede più grandi o meditare su come pro­cac­ciarsi regolarmente il cibo. Rinunciando alla vecchia abi­tu­di­ne animale di una breve performance istantanea, deve pro­muovere il compito più lontano con azioni più prossime. Deve essere in grado di essere maggiormente paziente e rac­cog­lie­re e coordinare tutti i suoi poteri individuali.

Strappato dal breve evento individuale, costretto ad atti interconnessi, l’uomo si scopre più di quanto è stato finora.

Ora appare ben più del semplice potere, che costringe la forza opposta; piuttosto, si trova in mezzo alle forze, rego­lan­dole e usandole, come capacità pronte all’azione, ma differite, come una possibile decisione di potere, come un potere di volontà. Fuori da semplici oggetti e forze, le resistenze là fuori ora diventano anche «poteri», cose capaci di volontà e volontà; e ciò a cui finora si è opposto come forza speciale, gravità, du­rez­za, colori, odori, movimenti, di tanto in tanto le valuta come «qualità» del volere. In tal senso, se ne serve e cerca di «pren­der­lo», e anche lo strumento diventa un essere reale, un fe­tic­cio, una magia.

Forse, e certamente! l’amore più grande della volontà, attraverso il quale gli uomini si distinguono nei confronti della bestia, ha contribuito al fatto che l’uomo si sentiva più chia­ra­men­te e sviluppava un senso di scambio più vivace: così nella sua stessa vita, dove la cura del cibo lo rendeva sempre più associato alla stessa donna e diede seguita all’abitudine amo­ro­sa e così, guardando l’ambiente, che in tal modo ha ricevuto più ricchi tratti della vita umana.

Ma questa ripresa dell’essere mordicchiò immediatamente il bisogno di fame: l’allettante alleanza d’amore è destinata all’alleanza della fame con molte teste da sfamare, la volontà lo fa considerarsi un animale predatore intelligente. E tutti i po­te­ri là fuori sono considerati semplici mercenari e avversari nella lotta alla carestia; la loro volontà e la loro azione ap­pa­ri­vano all’uomo affamato, essenzialmente sottoposto che agli stimoli della fame, incidentalmente mosso solo dagli impegni d’amore.

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Questa visione del mondo del bisogno ha ricevuto dalla morte, una brutta conferma.

Altrimenti la morte, atterrando il suo avversario, poteva essere considerato dall’uomo senza troppo pensare, con sod­dis­fazione – poteva la morte, dove separava in relazione con l’a­mo­re, rimanere un qualcosa incomprensibilmente macabro: così aveva, ha incontrato la causa della fame, la fame dei sop­ra­vissuti. Per l’uomo il più alto trionfo, per l’amorevole cuore un profondo orrore, la morte divenne un avido strozzino per mog­lie e figli. E così, la sua influenza spirituale iniziò dall’es­pe­rienza della fame.

L’uomo stesso non ha ucciso così tante creature per il ci­bo? La morte dell’altro era servita a renderlo sazio. Alla morte degli uni corrispondeva e riposava la vita dell’altro – i morti dovevano morire per alimentare qualche altra creatura.

Ma chi era questo altro essere quando la malattia o il dis­san­guamento e non un avversario fisico causarono la morte? Nessuno lo vide, era segretamente inquietante e da afferrare da nessuna parte.

Incredibile e invisibile, tuttavia, era il qualcosa che sem­bra­va aver lasciato il corpo alla morte, che giaceva muto come se dormisse, come un cadavere. Il dormiente respirava, ma il cadavere non respirava, con il respiro la vita interiore sembrò espirare e fuggire. Il potere interiore della propria vita doveva apparire come una creatura fugace e senza fiato, simile a quelli che mostravano sogni, spettrali e ombrosi.

Tale spettro mortale doveva essere l’essere ostile, che im­prov­visamente porta via la creatura vivente, bramando nutri­men­to – che, naturalmente, è spettrale –, accattivante l’anima, strappando via il potere speciale psichico del corpo.

E così l’uomo ha sperimentato una doppia intuizione nel volto del cadavere, certamente nell’ingannevole spirito della fame: la sua stessa anima, il potere del suo corpo e poteri simili all’anima nel controllo delle cose al di fuori di lui.

L’anima era considerata un’ombra, nativa del reame om­bro­so laggiù, dove il sole affondava ogni sera, oltre l’acqua; nell’aldilà notturno sotterraneo, il morto, lo spettro dell’anima, dimorava in una natura cupa, di cui la vera ombra, il sosia del corpo, testimoniava. E questo fantasma dell’anima minacciava avidamente la vita da cui nasceva.

Per proteggere la vita da tale intervento di spiriti affamati, i vivi ora dovevano sfamare i morti, i poteri infidi.

Quindi la morte basata sulla fame ha portato l’uomo al triplice servizio: seppellire il morto con cibo, equipaggiamento e armi in modo che ne potesse abbisognare «laggiù»; Nutrendo il morto, affinché non abbia fame e che non debba prendere il suo cibo e non derubare il cibo ad altri; e ora sta dando da mangiare a tutti i tipi di fantasmi affamati che potrebbero aver causato la morte del defunto.

Fame, sterminio e oscurità si intrecciavano con l’inganno, l’dea dell’anima dell’uomo, che era già stato derubato dalla morte del suo aiutante, ora doveva prendersi cura, oltre a se stesso, di un esercito di fantasmi.

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I poteri fantasma dell’anima diventano parte della reale esis­ten­za; la loro azione, o almeno la loro influenza diretta o in­di­retta, era sentita dall’uomo in ogni cosa da quando era arrivato all’utilizzo sistematico dei suoi poteri, e poi, nella fame del compagno, aveva trovato un valore nutrizionale. Ma questi «spiriti» l’uomo non li considera un’esistenza realmente più alta, sostanzialmente più nobile, ma un’esistenza piuttosto diversa, fondamentalmente altrettanto confusa e sobria quanto la sua.

Certamente! sono superiori, ma solo perché non rilevabili, in un’imboscata perpetua, sono minacciosi, ma solo perché hanno fame. Riuscendo a impegnarsi dando loro garanzia di cibo, è stato possibile conoscerne con precisione la loro vo­lon­tà, la loro natura segreta, conoscerne il nome, i poteri segreti che erano probabilmente anche un alleato per le persone, lo scambio di prestazioni con lo scambio reciproco di pagamenti e contrapagamenti, i partner silenti e complici della predatoria vita umana.

L’uomo che calcola e ritiene il retaggio della fame al­tret­tan­to valido nell’aldilà come in questo mondo. Il bisogno di fame nella pulsione di vita, che era inframmezzato dalla morte, falsò lo sguardo fugace nell’essenza più profonda della vita, che altrimenti nell’uomo amorevole forse avrebbe risvegliato il dolore della separazione.

Un profondo, vero e proprio grido dell’anima lacerò anche il cacciatore di un tempo, quando lui, tornando a casa, si trovò la compagna di vita dilaniata dalle belve – una madre quando ha perso il suo bambino. Allora, l’amore per il prossimo di­ven­ne un valore eterno. Nel complesso, la fatica della fame era ancora più potente: dominava l’umanità da quei tempi pri­mi­ti­vi della foresta e portava la fede amorosa a sfiniti dubbi.

Su questo sentiero sbagliato di calcolo della fame, pioniere nella storia oscura dell’uomo, corre l’intero ulteriore sviluppo mentale, di una visione controparte più chiara, spesso più dif­fi­coltosa e messa in guardia quasi inutilmente: così fon­da­men­tal­men­te determinante la fame dimostra che i suoi errori, as­sur­ti a leggi del pensiero, stuprano la chiarezza di ogni visione e prevengono il ringiovanimento della vita, per spaventare la sacra primavera, che invocano la natura del futuro.

Sì, la fame ha tanto instupidito la mente che, quasi da sola, vede che il passato, beffarsi del futuro.

Il pensiero contadino

 

Traduzione Bruno Ferrini