Da una vera e propria vita
Il trasloco nel castello di Jootma
Se l’inizio del 1883 fu per me greve di tristezza, l’estate avrebbe portato a compimento un mio desiderio la cui aspettativa mi riempiva di gioia. Ce l’avevamo fatta: avremmo traslocato dalla casa di campagna della tenuta di Sophiental nella casa signorile di Jootma, distante quattro chilometri da quest’ultima. Jootma era un cavalierato appartenente al barone Maydel von Kurro, parente e collega di studi di mio padre, che l’aveva a sua volta acquistato dal signor Viktor von Henning, che era stao mio padrino di battesimo. Una volta, i cavalierati baltici potevano essere posseduti che da parenti di appartenenti, in quanto immatricolati, alla nobiltà baltica. Il signor von Henning, che non ne possedeva i titoli, l’aveva acquisito per il tramite di sua moglie, nata baronessa Sophie von Wrangel il cui padre aveva creato i bei giardini di Jootma. Da lei deriva la denominazione «Sophienthal» data dal marito al possedimento. Questa regolamentazione venne poi annullata e presto i cavalierati poterono passare nelle mani di proprietari che non possedevano i titoli nobiliari previsti antecedentemente. Il barone Maydell possedeva oltre Kurro, dove viveva sua sorella, anche i cavalierati Jootma e Resna, la cui casa signorile era stata distrutta da un incendio. Prima di noi, nel castello di Jootma, ci aveva vissuto in affitto un barone Rosen. Ora era libero e lasciato a nostra disposizione. Jootma poteva de facto essere considerato un castello e, visto esternamente, appariva molto più cospicuo dell’abitazione signorile di Kurro, superato nell’aspetto che dal goticheggiante candido castello di Lechts che avrebbe per mè ben presto assunto un altro significato. Bella anche la residenza del bianco castello di Taps dalle sue sei colonne, dove abitava Alla von Fock, mia madrina di battesimo. Jootma era una casa a due piani in stile impero e aveva sul suo fronte 24 finestre con un peristilio a mo’ di tempio dalle quattro colonne sui due piani. La si vede già all’arrivo nella verde corte delle rose, circondato da alberi di ogni tipo, tigli, betulle, pioppi di diversa specie, Pini e cespugli fioriti. Si entra da sinistra, come in un boschetto di fogliami e pini, e ci fermiamo davanti alla scalinata con il colonnato. Entriamo nell’anticamera, dove si depositano le nostre cose. Qui, un antico armadio con uno specchio in mahagony. Di fronte, attraverso una porta ad ante battenti scorgiamo la sala da pranzo con la doppia porta sulla veranda che guarda sul prato antistante. Sulla destra si intravvedono, a porte aperte, i due locali dell’appartamento di mio padre. Sulla sinistra, entriamo nella spaziosa sala. Bianca, con quattro porte dalle ante battenti, lunga undici metri e larga sette metri e mezzo. Luce da sei finestre, tre delle quali verso sud che guardano al viale d’entrata e tre verso nord verso la corte con giardino. Davanti a quasi tutte le finestre nella sala, piante verdi. Tra tre finestre, alti specchi in mahagonny in stile impero. Un grande pianoforte invita gli esperti ad essere suonato. Una grande ed imponente stufa piastrellata promette calore per l’inverno. Particolari mobili con intarsi e schienali a medaglia, ricoperti di rosso, invitano ad indugiare, ordinati su un grande tappeto. Una cosa rimpiango: la mancanza di un autentico parquet. Anche nella casa signorile di Kurro ce n’era uno dipinto che richiedeva molta cura e vi ci si poteva inoltrare che con belle pantofole. Evidentemente, non vi erano bambini.
Anche in fatto di quadri, ce n’erano in abbondanza. I ritratti a olio dei nonni paterni del pittore Baron Clodt. Un bel ritratto giovanile di mia madre dell’artista Johann Lind. Lupi che assaltano un contadino russo ed i suoi cavalli nella neve, fatto da mio zio il generale Feodor von K. Oltre che riproduzioni monocrome di immagini bibliche. Un orologio rococò ticchetta su di un vecchio tavolo da gioco. Ogni tanto, lo scandire delle ore di una vecchia pendola inglese, dalla sala da pranzo. Un possente filodendro tropicale giunge al soffitto. Un salone nel vero senso della parola. Mi si allarga il petto.
Sulla sinistra, una porta ad ante battenti conduce alla sala azzurra con il caminetto ed il bronzo in primo piano. Da due finestre, vista nella corte di verde. Cinque metri per cinque e mezzo, il locale. Un simile stanzone con camino me lo son da sempre desiderato. Dieci anni più tardi vi morirà, dopo molte sofferenze, la mia cara mamma. Ma, allora, manco ci pensai. Da lì, nella stanza di mia sorella, con la vecchia graziosa scrivania dai cassetti segreti, la lampada rossa che veniva accesa la sera con le visite. Poi, si passava ad un’altra stanza d’angolo, luogo di mia madre e dove ci dormii fino all’età di sedici anni, durante le vacanze. Vi ci si scorgevano, l’estate, cespugli ed aiuole fiorite. Si giungeva poi nella stanza della nonna materna e, finalmente, di nuovo nel salone. Salendo una scala, il piano superiore con un un’anticamera e sei stanze. Due le abiterò più tardi, durante le vacanze. Vista sulla corte a prato del retro, grandi praterie in lontananza, attraversate da un fiume tortuoso fino al bosco e, oltre la brughiera e la linea ferroviaria, si ergeva la torre del bianco castello di Lechts!
E il giardino! Sul retro della casa con la veranda semiaperta, un’altra corte dalle erbe fiorite e, a lato sulla sinistra, un gruppo di alti larici, come non ne vidi altrove, se non nelle alture della Svizzera. In Siberia ce ne sarebbero dei boschi interi, come pure le steppe con gli edelweiss, che si trovano altrimenti sulle rocce alpine. Tra i rami di questi larici appesi la mia amaca e vi feci sogni ad occhi aperti. Accanto, una serra con un fico che morì poco dopo. Nel prolungo, un grande giardino con molti alberi da frutta, in particolare magnifici meli e piante da bacche, circondate da una fitta siepe di conifere dalla quale sorgevano a distanze regolari altri alberi, in particolare magnifici aceri che in settembre risplendevano di porpora e oro. Poi, ripetutamente, sentieri dalle gigantesche peonie rossastre ed i gigli rossi, betulle siberiane, tigli dalle grandi foglie, olmi, frassini e tra di loro violette dal lungo stelo, che odoravano intensamente. Libellule azzurro scuro e verdi prendevano il sole in questi sentieri. Come profumavano, dopo la pioggia, i pioppi in concorso con le betulle. Ed in primavera, il ciliegi, piante selvagge dai bianchi fiori profumati da noi chiamato albero marcio. La sera, aleggiavano le farfalle sfinge della vita attorno ai lillà, e gli davo la caccia come pure a quelle altre farfalle variopinte, sui prati fioriti. A mo’ di espiazione, le ricupererò accogliendole, quali unici animali, nel Mondo dei Beati.
Il giardino si perdeva in un parco inselvatichito fino ad una cataratta del fiume, che cercai di attraversare con la barca, sebbene diventasse arida e sassosa. Il proprietario precedente, il barone Wrangel, avrebbe voluto farci molte belle cose, ma non ne ebbe i mezzi. Ma per quello che restava, potevo trovarci piacere. Sì, questo era il mio mondo! Mi ci trovavo a casa, molto più che a Sophienthal, malgrado il bosco vicino. Quell’alito di nobilitante acculturamento mi ammagliava con la sua combinazione di natura e spirito umano. Sì, il mio arrivo nella residenza di Jootma, era un magico sogno nella vita del ragazzo.
Altrettanto più tardi, dopo aver vissuto una piena età, quando arrivai nel Sanctuarium Artis Elisarion a Minusio nel Locarnese, nella mia più prossima creatura, quale uomo provato. Anche questo era la realizzazione di un profondo desiderio espresso in gioventù: un giorno vorrei possedere una villa, un castello sull’azzurro Lago Maggiore. Ma non vi erano prospettive. Strani, questi soddisfacimenti terreni! Che nulla lasciano a desiderare. Un’oasi nell’estraneo Mondo del Caos. Ma attorno, sempre rimane il Mondo del Caos. Mi rendo conto, lo so che coloro tutti presi a mettere le loro speranze in questo mondo, non lo sentono volentieri. Chissà se un giorno si realizzerà il mio ultimo sogno ed intenso desiderio – il risveglio nel Chiaro Mondo dell’eterna gioventù, come lo mostrai e creai? … Credo anche in questo! Il mio credere diventerebbe verità, oltre due volte.
Primi assilli religiosi
Presto ci furono nuovi ripensamenti, delicatamente religiosi di un pensatore in erba, un dodicenne maturato dalle sofferenze, che malgrado le sue fantasie aveva una chiara visione per l’umanità, le cose e le situazioni accanto uno spiccato senso di giustizia ed un modesto orgoglio. Mia madre dovendo sempre più riguardarsi a fronte della sua salute, non poteva andare in chiesa che d’estate. Se i miei genitori volevano fare la comunione, il Pastore veniva in casa. Dapprima, mia madre aveva chiesto perdono per eventuali ingiustizie anche a noi bambini e alla domestica. Era autentica e profonda religiosità cristiana. Eppure, furono proprio queste cerimonie eucaristiche l’occasione per il mio allontanamento dalla Chiesa Luterana. Già a dodici anni percepivo quale immotivata ingiustizia l’esclusione della nostra famiglia dalla sacra comunità. La confermazione, da noi si svolgeva relativamente tardi, sui 16 anni, per me particolarmente tardi, a 18. Ciò avvenne per il fatto che al nostro ministro, il Pastore Knüpffer, un bel attraente uomo dalla barba corta, proveniente da una rispettata famiglia di letterati, gli fu amputata una gamba a seguito di una terribile malattia, e pertanto non volli partecipare alle lezioni di dottrina del suo poco simpatico sostituto. Tragico destino per un uomo della sua levatura. Ciò mi ha fatto pensare, avevo grande compassione per lui che ascoltavo volentieri sebbene già allora la pensassi diversamente e mi stavo rivolgendo alla chiesa cattolica.
Non tanto per una questione di culto, come la maggior parte vorrà subito credere, sia chiarito in tempo che non avevo mai avuto l’occasione di partecipare ad un bel culto cattolico. Fu l’esclusione dal mistero dell’unione con Dio cui i miei genitori ed i fratelli più anziani tenevano, che mi estraniò non ritenendomene indegno. Perché poi? Ci dove essere un errore – senza dubbio. Le domeniche mattina, mio padre ci leggeva una predica il cui contenuto, per lo più, mi stancava e più tardi persino mi infastidiva e sospingeva alla intima contraddizione. Reazione analoga, anche alle prediche nella chiesa di Reval. Non era la Chiesa, la religione per me. A Reval andavo volentieri nel Duomo, una chiesa il cui carattere storico era animato da un altro spirito. […]
Punti a favore del ragazzo e del giovane, che trovò modo di cercare e trovare una via per il proprio animo, senza pertanto mettere in discussione ed offendere la sua considerazione nei confronti dei propri genitori. Con il successore del ministro così pesantemente toccato, il Pastore W., ebbi una conversazione sul tema dell’eterna condanna. Alle mie rimostranze di carattere etico mi contraddisse: «Nella grazia divina saremo talmente felici da non pensare all’inferno». Al ché risposi «no, signor Pastore, non potrei essere felice se un essere, che mi era amorevole e caro, fosse condannato in eterno alle pene dell’inferno.» Penso ai due antichi amici Castore e Polluce, di cui il figlio divino preferì accompagnare agli inferi per guadagnarlo al mondo divino. Questi «pagani» erano più vicini alle intenzioni divine di quanto lo fosse il parroco cristiano. Quanto negli antichi suoni, nel miglior senso, come «cristiano», l’ho messo in evidenza in «Olympia e Golgotha». Ne cito che tre esempi: «Non per assieme odiare, ma amare» e «Amore è quanto libera altro amore» entrambi di Sofocle ed anche «Accanto a Dio (Zeus) sul trono siede il perdono da ogni colpa». E Pindaro, l’antico poeta dice: «Nessun Dio imbroglia nessuno dei mortali con l’azione o la volontà» e persino l’Apollo punitivo lascia a suo figlio «il salvare l’umanità da molto dolore». Ed Eschilo negli «Eumenidi»: «Rimproverare il prossimo dell’errore, è ingiusto e poco nobile» ricordano più il Cristo che la maligna cattiveria che viviamo, così frequentemente, nei cristiani.
Gravi esperienze
Nell’estate del 1884, avevo allora dodici anni, fummo colpiti da un avvenimento che avrebbe potuto avere, per tutti noi, devastanti conseguenze. Era una bella serata estiva, con mio fratellino Adolfo di sette anni, avevamo dato la caccia alle farfalle in giardino e stavamo rientrando per mostrare un nell’esemplare di una farfalle delle betulle. Entro nella stanza della nonna, che si era già adagiata, mentre mio padre, come soleva fare per distrarsi, era al tavolo preso da un gioco di pazienza con le carte. Qui, improvvisamente, un fiotto esce dalla sua bocca. Sangue! Che spavento! Accorre mia madre. La nonna 82enne si rialza. Un letto vien preparato nella stanza azzurra con il camino. Per fortuna, la scorta di ghiaccio in cantina non era stata ancora esaurita. Viene usato per il suo petto. Tutt’intorno nessun medico o aiuto! Vien spedito qualcheduno alla stazione della ferrovia per inviare un telegramma al dottor Voss nella vicina cittadina di Wesenberg. Wesenberg era più prossima che Reval, sulla linea per Pietroburgo. Grande preoccupazione per il malato! Era l’unica risorsa per la numerosa famiglia, in quanto quello che mio padre era riuscito a risparmiare non sarebbe manco bastato per i genitori, non parliamo per poter allevare i tre ragazzi. Poi si sarebbe dovuto trovare un sostituto medico per tutti i numerosi pazienti dei dintorni, ma per questo c’era il dott. Hirschhausen. Giunsero lunghe e preoccupanti settimane. Quanto mio padre fosse apprezzato, potemmo rendercene conto, quando ripetutamente arrivarono le visite dai cavalierati vicini i cui calessi si arrestavano fuori dalla corte per non disturbare l’ammalato. Tutti volevano informarsi sulla stato di salute del medico ed amico delle famiglie. La mia povera mamma, essa stessa di salute cagionevole, fece quasi l’impossibile, aiutata da mia sorella. Il pericolo per la vita venne superato.
La stessa sera in cui si ammalò, mio padre rinunciò all’uso dei due veleni cui era abituato da anni: morfina e tabacco. Da allora, non fumò più nemmeno una sigaretta. Veramente notevole ed ammirevole. Vi furono momenti in cui i suoi nervi e la sua forza di volontà vennero messi a dura prova, ma li superò. Rilevante il ricordare che dal momento di quell’emorragia divenne una persona molto più sana: andava a letto e si alzava in orario e, pure d’inverno usava slitte aperte. Divenne molto più vivo, fors’anche più eccitato e se prima era piuttosto magrolino, prese un pò più di peso, arrotondandosi, più tardi quasi troppo. Ma io ero stato messo al mondo in altri tempi e dovetti io stesso, più tardi, iniziare a condurre una vita più ordinata e prudente, in particolare per gli orari di riposo e per l’alimentazione. Non ho mai bevuto, salvo in Italia un mezzo bicchierino di vino, mai fumato, mai acchiappato malattie veneree, cosa quest’ultima, che un mio medico ha giudicato come una rarità. L’anno successivo, in primavera, nuovo grave motivo di preoccupazione per mia madre colpita da una grave difterite. I miei fratelli più anziani si inginocchiarono davanti alla porta di mia madre e pregarono il buon Dio per la sua guarigione. Io ero lontano, a scuola. Nel chiesa di Nicolao venne dal pulpito pregato per la vita di mia madre, su richiesta delle sue sorelle. Io ero terrorizzato a fronte di una tale evenienza. Ma sopravvisse. Allorquando la rividi in estate, era pallida ed emaciata, ma viva! Non avevo ancora perso la mia patria terrena.
Genitori e figlio
Stando a mia madre, mio padre le avrebbe una volta detto che rimpiangeva in me un manco di tenerezza nei suoi confronti. Penso, sia più dipeso dal lui, più dall’uomo che dal timido ragazzo. Se il mio fratello più giovane gli fu più vicino, ciò era dovuto alla sua natura ma anche dal fatto che da quando mio padre aveva rinunciato a quel narcotico, divenne lui stesso più aperto, viveva più naturalmente; io l’avevo conosciuto prima quale uomo stanco, cui restavano poche forze per dedicarsi ai suoi figli. Non fu che con la morte di mia madre, che ci siamo ravvicinati. Mio padre era molto più tedesco nel carattere di quanto lo fossi io, era poco prone alle considerazioni di merito, scherzava più spontaneamente, poco importa se altri potevano farsene un’idea errata. Il sensibile, ragionevole, lo ebbi da mia madre, il vivo e sensuale da mio padre, poi più tardi, fortunatamente, anche un poco del suo humour. Mia madre aveva il sottile modo degli Svedesi, che preferiva mordersi la lingua piuttosto che dire qualche cosa di sconveniente. Anch’io restavo volentieri piuttosto guardingo e gentile fin tanto che non mi si trascinava con la maleducazione ad indignarmi; allora sapevo rispondere con energici dinieghi. Nello scrivere, piuttosto indeciso, senza pensare troppo ai miei interessi. Dell’amore filiale per la madre, da quando la psicanalisi si è fatta moda, se ne dissero anche molte a sproposito. Sulla parola «legame materno» devo pertanto dire la mia. Certamente ero legato affettivamente a mia madre e, come ogni amore autentico, questi aveva un suo calore che si rallegra della vicinanza ma che anche nella lontananza è nutrito se non accresciuto dalla nostalgia. Per natura, vi è anche un elemento sensuale-simpatico, ma non sensualità del l’«innamoramento». Mia madre non era il genere di una donna oltremodo tenera, ma possedeva una calmo calore della bontà, un qualche cosa di molto madonnesco che fluiva verso di me. E quanto mi attirava verso di lei era la mia forma di amore equilibrato che evitava, quanto lei, ogni laidore, rozzezza nell’essere ed apparire, anche nei miei confronti. Poco prima della sua di partenza mi disse: «Con te, sono sicura che non mi farai mai vergognare, nemmeno nel tuo apparire.»
Il tipo che avrebbe avuto su di me un forte impatto erotico, era tutt’altro. Anche la sua esteriorità aveva un qualche cosa di madonnesco, portava il suo velo (stira) libero e alto, il suo essere era quello di una nobile donna senza presunzione, senza civetteria. Il velo adombrato da riccioli, il tono da birbante dell’erotismo, non le confacevano. Eravamo legati più spiritualmente, per simpatia. Pertanto, questo profondo amore non mi ha ritenuto – come lo intendono alcuni psicoanalisti – di intensamente innamorarmi, da giovane, in una ragazza del vicinato. Lei era di tutt’altro tipo, mi stimolava sensualmente indipendentemente dal genere cui apparteneva, in quanto non era il «sesso» che mi attirava sensualmente, ma bensì un certo modo di essere ed apparire. Anche questo è stato mal compreso e fin ora valutato erroneamente. Che poi l’omosessualità sia il frutto di una tendenza verso la madre, non sono in grado di verificarlo sulla scorta della mia esperienza personale. Sarebbe perlomeno triste se un vivo amore verso la madre potesse nascere che in questo caso estremo. Anche l’amore della madre verso la sua creatura, con l’allegria e sensualità del suo giocare assieme, ha in effetti e naturalmente qualche cosa di sensuale, ma vi sono molti tipi di sensualità. Come esistono vari tipi o generi di attrazione e repulsione.
In un Epos ancora incompleto, così ho presentato i miei genitori:
Suo padre un autentico nobiluomo,
Un cristiano, ma dall’essere allegro.
Vedeva la vita come provvidenza divina,
Oltre che leggere la Bibbia, molto altro fece.
Per lui terra e cielo erano apparentati –
Con uomo e Dio un tutt’uno.
Giocava a carte, amò, ma tenne
il suo ardore che nel convenuto.
In cuor suo per un libero stato,
Della libertà religiosa sostenitore,
Paziente indipendente, in scacco mise
L’altrui convincimento, ne aumentava gli averi
Ma non un loro conoscitore.
Manteneva nel dolore la speranza;
Nella lotta per l’esistenza, mai selvaggio corridore,
Grande numeratore nel denominatore della disgrazia.
Lei, che lo testimonia, era d’altra specie.
Fuori tollerante, nobile, delicatamente chiusa,
tenera in ogni movimento e nell’essere.
Nella lotta del quotidiano, ma tenace
Amò un’unica volta, senza mai perder calore.
Qui erano finemente appaiati serietà e moderazione
Le belle mani, spesso congiunte
in preghiera, furono fedeli nell’agire.
Troppi dolori e tenzoni affrontai nella mia vita. E se avessi un nobile compito da assolvere con l’aiuto di Dio, lo erano i genitori che mi generano e mi accompagnano negli inizi della vita. Il tardivo Elisarion aveva un messaggio, salvitico per molti, ma altrettanto non vorrei maledire il martirio di questa vita, le sofferenze fisiche e l’odiosa inimicizia dei ciechi di spirito. Una volta, da ragazzo, avevo addolorato mia madre maledicendo l’ora della nascita.
Quando i ragazzi maturano
Ahimè! Non parlai d’amore,
Nulla, del dall’Alfa all’Omega dell’umanità!
Eppur lo giuro, temono i miei versi
Nulla più che grigia noia.
E Axel era uno di quei giovani,
in cui presto l’Eros presente;
Lottò presto in tenzone tenace,
Follia d’innamorato, ne cantai i versi.
Sembrano scherzosi, ma sono sacrosantamente seri – l’offerta d’amore nei giovani, sospinta o sottomessa nell’ombra da cieca educazione o mal condotta morale, fin ché un giorno esplosioni sociali dimostrano il loro grosso errore in una cultura calibrata. Questi rivoltamenti li stiamo vivendo con forza. Anche le rivoluzioni morali e religiose in Russia e Spagna non sono che cattive escrezioni, ma eruzioni vulcaniche che lasciano capire che qualche cosa, nel vecchio ordinamento, non quadrava.
Fin tanto che resiste il cammino
della filosofia del mondo,
Il meccanismo si mantiene
Con la fame e l’amore.
L’apostolo della libertà Schiller l’aveva capito, ma il suo popolo tedesco non l’ha recepito a verità. Goethe, era già più prudente e poteva essere interpretato più arbitrariamente. Molte cose, che avrebbe voluto dire lui stesso, le aveva messe in bocca a Mephisto; ma queste posso venir accantonate. Eh beh – Se qualcuno volesse proibire ad una ragazza le sue regole mensili, medici e naturalisti lo prenderebbero per pazzo. Presso la donna, questo fenomeno naturale, non proprio il massimo, viene tacitamente tollerato, anche da rappresentanti dell’alta morale, in quanto non provoca piacere, anzi è fastidioso e doloroso. Ma se un ragazzo o un giovane non fa altro che seguire la funzione del suo corpo, allora questo gli vien cattivamente dubitato o, almeno ufficialmente, sottaciuto come immorale, sporco. Perché non provoca dolore fisico, ma piacere, allora questa forza naturale, di natura analoga all’altra, diventa «impura» (per dirla, come si usa nella società). Conseguenze?
Il giovane non deve né sapere o percepire, ma il giovane corpo non si lascia abbindolare da elucubrazioni filosofiche, vive le sue naturali esigenze ad intervalli regolari, quali fame e sete. Come la metteremmo, se fame e sete, in un’ipotetica cultura, fossero messe al bando come immorali? In gran segreto, si mangerebbe in modo ancor meno sano. L’abbiamo potuto constatare dove l’alcole (che non è altrettanto naturalmente indispensabile) ha trovato una proibizione assoluta. Che è successo? Si beve in gran segreto, peggio, alcole denaturato, e molto di più e peggio. La Finlandia, così radicale, ha dovuto ricredersi. Questo vale ancor più per le esigenze naturali. Si deve senz’altro educare la gioventù alla moderazione, all’armonia; altrimenti si caccia il diavolo con Belzebù. Poveretti, i giovani! Che devono sapere, tutti soli, delle umane cose? Come angioletti che cantano l’Alleluia. Sì, bambini-angioletti?! Una delle classiche menzogne di una società antierotica. Quante volte i bambini sono dei crudeli egoisti, tra di loro e contro l’età. A seconda quanto si portano in eredità, eredità dai loro predecessori o dalle proprie esperienze. Scendessero dagli angioli, sarebbe meglio che restassero tra gli angeli invece di scendere tra di noi, dove forse, stando alla chiesa, se riescono male, vengono cacciati all’infermo, al diavolo, siccome angeli cattivi. Ma ognuno avrebbe quanto si merita … I genitori pensano per lo più: i loro bambini ne sapevano naturalmente di nulla, nulla del proprio corpo e dei loro istinti, se non fosse stato per il cattivo influsso di altri bambini cattivi o per il traviamento di adulti senza scrupoli. Che ne devono sapere i giovani? Tanto? – Troppo poco, ancor di più, seppur perdendosi sui falsi sentieri … dell’esagerato solitario esaurimento di se stessi, che indebolisce. Ma la dolce forza ve li costringe, lasciando loro presto intuire segrete gioie.
Il primo fuoco si consuma da solo, e spesso appassisce in Narciso. Pertanto. E allora? Vostri figli, contaminati da un mostro meretricio, a voi caro e costoso.
Spesso lo scherno dei camerati vi ci porta, in quanto «uso e costume».
Dov’è la buon’educazione alla vita di Sparta,
Preoccupata del giovin uomo,
Lontano da blasoni e galanterie.
Dove rigore legato all’amore;
Dove giovini, sani, in anni più maturi
Navigano alla spiaggia della loro unione?!
Circa al mio quattordicesimo compleanno, il mio corpo maturo si annunciò senza alcun intervento esterno, senza alcun stimolo artificiale. Questa era natura. Fino a quindici anni, mesi dopo il risveglio, nulla sapevo delle differenze somatiche dei sessi. Nessuna informazione o educazione sessuale in famiglia, nemmeno da mio padre. Quando ne seppi di più da un compagno, da parte mia nessuna agitazione o particolare curiosità. Il mio Eros non era di natura sessuale e non lo sarebbe per molti altri a questo educati con ammonizioni, vestimenti accentuate e capigliatura. E’ forse «Natura» che ai ragazzi si debbano tenere i capelli corti, quasi fossero più maschili? Nessuno, benpensante, potrà sostenerlo, in quanto anche ai ragazzi crescono i capelli. Allora si tira in ballo l’igiene. Come se le ragazze non ne avessero di bisogno! D’altronde, vi sono popolazioni con ragazze e donne dai capelli corti, non unicamente le nostre bambine, si fa per dire, acculturate. E, per natura, le donne non hanno la gonna. Anzi, un gonnellino come gli albanesi e gli scozzesi, più naturali per l’uomo dei pantaloni che sottopongono a pressioni gli organi maschili. Quasi nulla, tanto lodato dalla morale, è poi così naturale. Vestiti e costumi sono spesso una lente d’ingrandimento della sessualità, che accentuano, già da lontano, la sessualità. E il bel sesso? – Ci sono popolazioni e sottogruppi in cui l’uomo, e particolarmente il bambino ed il giovane sono più belli e d’altronde altri gruppi in cui è il contrario. Disputarsene è inutile, visti i gusti che possono differire. Anche all’interno di una razza, persino di una famiglia, possono esserci differenze – Mia zia Louise, consigliera di corte Meder a Reval, disse ripetutamente a mia madre: «peccato, che Eia non divenne bambina e Frieda un maschietto! Avrebbe potuto fare un ottimo partito!» Io ero però contento di essere un maschietto e mai ebbi il desiderio di essere una bambina, mai avuto voglia di vesti femminili, come dovrebbe succedere a maschietti effeminati. Preferivo vestiti che rinforzavano il mio ruolo. Giocavo spesso al soldato e conducevo guerre, con quindici anni ho creato le figure per le guerre di Troia e quella dei Sette Anni, senza pertanto diventare un violento attacca brighe. Mia madre non ha visto volentieri il fatto che all’età di undici anni abbia dovuto, per andare al ginnasio, portare pantaloni! Mi ci riteneva deformato. Una volta non si era così progrediti come oggi, con ragazzi che portano calzoncini, cosce e ginocchia nude. Allora, si era ancor più costretti a mascherare il corpo maschile. Una cravatta bruna, in luogo di una bianca o nera, già rappresentavano una rivoluzione. Chi può oggi immaginarsi cotanto, anche negli ambienti più bigotti? L’inerzia, alla base anche della fisica umana. Pertanto, anche vestito da bambino, provocavo successo. Lo devo dire, anche a costo di essere rimproverato di vanità. Mia zia, che mi voleva molto bene, mi disse una volta in strada: «Hai visto quel signore, come ti guardava con ammirazione?» Alcuni lo considereranno come poco pedagogico e fuori luogo. Cara grazia! La sua amorevole anima era naturalmente umana. Ci risi su, ne fui contento, senza farmi altri pensieri. E quando, più tardi, se ne riparlò (al momento della russificazione) per un insegnante particolarmente sensibile al bello, mia madre osservò, sorridendo: «In tal caso, tratterà bene anche Elisàr!» Una volta, ne fui penalizzato: avevo mal di denti, acuti e perdurarono un mese, giorno e notte. Mio padre era contrario ad un intervento chirurgico in quanto, diceva, non voleva lasciarmi deformare e sfigurare con un intervento esterno. Ne ho sofferto, non unicamente fisicamente, ma anche psichicamente in quanto ritenevo una dentatura ineccepibile un complemento alla mia bellezza. Non fu che a 18 anni, meglio a 23, che fui sistemato e liberato da un complesso psichico. Benché gli interventi fisici, sangue e ferite, mi mettevano in crisi totale da svenire, divenni più eroico quando si trattava della mia bellezza. La lotta per la bellezza mi sollevò a martire e mi portò più tardi molti inveterati nemici, ma anche amici ed amiche convinti.
Mia zia e suo marito erano bravi cantanti e parteciparono anche ad una esecuzione della Passione secondo San Matteo a Pietroburgo, sotto la direzione di Heinrich Stiehl. Alla sera vi erano prove sul coro della chiesa in Reval; allora andavo attorno nell’oscurità della chiesa che aveva vestigia ricordanti il suo passato cattolico. All’entrata, una sovradimensionata figura di San Cristoforo che porta il bambino sulla spalla – Gli passavo vicino con fastidio. Ogni tanto, in compagnia di un camerata, da due anni in una pensione con me. Dapprima erano due cugini, Nikolai e Emanuel Brasche, di una rinomata famiglia di letterati, cui apparteneva anche il pastore di Reval. Nikolai, nemmeno brutto, di un anno più anziano, tentò di soddisfare anche con me il suo bisogno di affetto. Ricordo una discussione tra i due cugini dove Nikolai sosteneva che fosse molto meglio che l’amore tra camerati, più sano che darsi all’auto-soddisfacimento. Il giovane aveva ragione, seppur voce nel deserto. Faccio notare che allora ero già somaticamente maturo, da alcuni mesi, altrimenti non avrei capito. Con Emanuel, il più sottile e due anni più di me, vissi un episodio molto significativo. Era tutto preso in un compito di scuola e venne disturbato da un camerata quattordicenne. Minacciò un poco, qualora non la smettesse, che l’avrebbe steso. Ora, questo ragazzino non era il tipo da disturbare o fare il maleducato; era qualche cosa d’altro che lo provocò. Nella scuola le punizioni corporali erano, lo devo dire, severamente proibite in Russia, contrariamente a quanto avveniva nei paesi germanici. Un insegnante che l’avrebbe fatto, perdeva l’incarico. Ma anche violenze o altri interventi da parte di camerati mi avrebbero profondamente indignato e il ragazzino ne fu risparmiato. Ma qui c’era dell’altro ed il camerata più grande aveva già mostrato una particolare attrazione per lui. Era pertanto niente affatto vera e propria violenza od indisposizione, ma piuttosto la necessità, il bisogno di un giovine in maturazione, di un’esperienza erotica. Pertanto, il ragazzino non ci ha fatto molto caso; allora il disturbato volle passare ai fatti. Ma rinunciò, e dopo un timido tentativo disse: «Sei troppo carino, con te non si può essere cattivi». Timidezza davanti alla grazia? Ma il furfantello era deluso. Qualche modo poco educato può essere causato da questo genere di tendenze e desideri insoddisfatti, poco importa se per un ragazzino od una ragazza. E’ una specie di sfida tra offerta e superiorità. Da ragionarci su, per l’educazione e giovani matrimoni. Alle volte può nascere una tensione, che non è in effetti «un collegamento errato». Una mendace struttura da struzzi, con la testa nella sabbia, detta umanamente, nel vecchio sacco delle convenzioni, non può abbassare le tensioni di situazioni altrimenti cariche e potenzialmente dirompenti. Risultato: esplosioni a diversi livelli, come spesso succede. Anche il bolscevismo religioso o etico è il risultato di lunghe disfunzioni etiche, insensate sottomissioni, non esclusivamente satanica cattiveria. Purtroppo, ne sono vittime anche innocenti, ma non esclusivamente innocenti. Il capitolo della vita sensuale dei giovani, particolarmente dei maschi, è molto più importante di quanto lo si voglia credere, specie per raggiungere un armonia rilassata. In particolare per il periodo tra i 14 ed i 24 anni di età, dove non si può pensare al matrimonio. Come mi disse un religioso: «Spesso si chiudono entrambi gli occhi». Ma ciò non è una soluzione per chi vuole avere una coscienza netta. O il giovane vegeta nei suoi sentimenti, diventa melancolico, stanco di vivere, forse si esaurisce nella solitudine, se non trova, che raramente, un amico più anziano quale guida al suo amore, o tende, già all’età di 17 o 18 anni, se non prima, ad un atteggiamento femminile che gli procura il più delle volte una malattia sessualmente trasmissibile. Benedizione di un ipotetico cristianesimo? No, ma ci vuole anche un cambiamento; segni in vista di qualche cosa che si sta muovendo. Insensato, il voler attribuire a stimoli artificiali, i naturali istinti giovanili. Magari l’alcole. Io non ho mai bevuto alcole. Alla fine, anche i più stretti astemi e predicatori hanno rapporti sensuali, prova ne sono i figli. Anche voler scaricare la «colpa» su libri ed immagini, rappresenta una patente esagerazione in quanto i bambini di ceti popolari, analfabeti, che non leggono, non visitano esposizioni o musei, hanno gli stessi bisogni, se non addirittura maggiorati e più ingenui. Non parliamo dei cinematografi. E’ facile, da sessantenni, predicare astinenza. La spaventosa percentuale di malattie sessualmente trasmissibili, come pure delle neurosi, calerebbe notevolmente se queste non verità nella nostra vita dalle leggi controproducenti e morale conto natura trovassero adeguata moderazione. Sensualità senza sentimenti calorosi è sicuramente di scarso valore, ma «sporca» è la menzogna di questa apparente cultura. Difesa della gioventù? Sì contro le malattie del corpo e dell’ anima. Conosco per esperienza vita e sviluppo di giovani. Una rassegna di lettere di questa gioventù, potrà un giorno parlare con il cuore. Io stesso sono riuscito a giungere alla mia età senza alcuna malattia sessuale – Grazie a Dio – ho pertanto il diritto di dire la mia.
Erotico – non sessuale
Secondo il mito antico, Armonia è la figlia di Ares e Afrodite; ciò ha un profondo significato. Dalla combinazione di Ares, maschia figura e Afrodite, la femminile, nasce l’armonia. Questo succede in ogni grande arte, nel Rinascimento, nei tempi nuovi; sarebbe opera di grande soddisfazione poterlo dimostrare con una grande opera riccamente illustrata. Ma non solamente nell’arte, anche nella vita, se ne ha traccia. E questa percezione di «Armonia» – combinazione l’ho denominata Arafroditica, da non confondere con Ermafroditismo. Quest’ultimo è piuttosto la esteriore combinazione di attributi di entrambi i generi; arafrodita è invece di provenienza interiore, la combinazione di esseri maschili e femminili che si esplicita con una graziosa compenetrazione di forza e grazia. Ciò può avvenire anche in una donna. Non intendo «omosessualità», non uno stato intermedio, ma uno, caso mai, superiore. Non intendo il «femmineo» di un uomo in un corpo maschile o il suo opposto. Ci sono, ne sono cosciente, uomini molto «femminei», di tendenza prettamente passiva e nel loro apparire poco graziosi, se non maschilmente spigolosi e trasandati. Cè un disaccordo tra interiore ed esteriorità, ad ogni modo nessuna armonia. Degno di nota il fatto che questi uomini poco graziosi nella loro apparenza cerchino comunque il favore maschile. Può essere abbastanza di disturbo per taluni, provocandone il rifiuto. Senza alcun senso, questo tipo di figura omosessuale, è stata confusa con quella di cui parlo. Ne seguì un guazzabuglio di giudizi erronei, di cui anch’io subii le nefaste conseguenze, in quanto si mal comprese completamente il mio «Amor cortese nella letteratura mondiale» – Questo avvenne dopo il 1900, devo parlarne già sin d’ora, per evitarne nuovamente le incomprensioni, visto che è umano ricadere nelle stesse rovinose chine. Malgrado le mie disavventure con la salute, riuscii comunque a mantenere una forma abbastanza armonica, non gracile, nemmeno massiccia, ma piuttosto del genere di un efebo antico. Quale 33enne, in quel di Siena potei vivere la situazione in cui un raffinato signore inglese mi ha preso per un giovine modello toscano, esprimendo i suoi apprezzamenti. Fotografie dal mio viaggio in Grecia, avevo allora 36 anni, mostrano che avevo ancora un corpo da efebo. E anche più tardi, con 10 lustri, la situazione era sempre quella. (L’editore: anche da morto settantenne, il suo corpo, sempre quello di un venticinquenne!) Non lo dico per vantarmene, ma per spiegare tutta la mia opera di una vita con il messaggio all’umanità. Non avrei potuto creare la mia opera artistica se non fossi stato un figlio dell’armonia e non fosse vissuto in me quel tipo di rara razza che potevo esprimere. Non ho creato, come tanti, quanto faceva loro soffrire, nemmeno quanto mi mancasse, come un Michelangelo dei Titani che le sue poesie dimostrano come ne avesse la nostalgia di uomini corposi e forti, ma non era insensibile allo spirito maschile di una Vittoria Colonna. Tutta l’opera di una vita, proprio nella sua armonia, rappresenta l’espressione di una forza interiore, che cerca, malgrado tutto di riuscire; malgrado una debolezza fisica, deficienze nervose, dopo tutto quanto ereditato e già subito in tenera età; malgrado le inimicizie, incontrate su nuovi modi vita – segretamente perseguitato da malevoli intrighi. Per affrontare tutto ciò, ci vuole una forza d’animo, una energia nella volontà, rare al giorno d’oggi. Questo lo posso dire, dopo che l’hanno riconosciuto anche medici, e che a seguito della morte di mia madre, fui in grado di convincere un collaboratore e compagno di lotte unico nel suo genere, senza di cui non avrei saputo e potuto realizzare la mia grande opera. Trattasi del pensatore e poeta, lo studioso dottor Eduard von Mayer.
Agi, il primo amore
Quando ho contato sedici anni, nell’estate 1888, divenni cosciente di un amore nei confronti di una ragazzina. Era nel castello di Lechts, quel castello oltre i prati, boschi e la brughiera, a sette chilometri di strada da Jootma, diventerà luogo familiare di desideri amorosi. Ne vedo ancor oggi il suo aspetto: capelli liberi, ondulati e di bruno castagna, tenuti assieme da un nastro di velluto, raccorciati e fluttuanti sulla fronte; scuri occhi dalle lunghe ciglia, un sorriso mezzo sbarazzino, mezzo imbarazzato attorno ad una bocca da baciare, accompagnati di un collo alla marinara azzurro chiaro dai bordi bianchi sopra un vestitino azzurro scuro, un elastico in mano, per giocarci. Da allora, quel vestito alla marinara ed il colletto, sono un bel ricordo che rivivrò una seconda volta. Undici anni, aveva allora la piccola baronessa Agnes von Ingenio-Huene, detta abitualmente Agi. In quell’anno, ancora un improvviso disgelo, da un mondo di sogno d’amore e bellezza. Quel caldo sguardo lo rividi spesso e non lo dimenticai. Era una eredità dalla madre, la baronessa Alexandra, nata baronessa von Ungern-Sternberg, una bella donna di spirito che mi dimostrerà nel seguito costante simpatia ed interesse. Nella sua mantiglia di velluto nero aveva qualche cosa di curiosamente meridionale, quasi ispanico. Entrambe le famiglie provenivano da antiche nobiltà. Il padre di Agi, Freiherr Friedrich von Hoyningen-Huene, era il classico barone di campagna. Naso aquilino, barba bionda e qualche cosa di liberamente naturale, spesso nutrito dall’umorismo. Pure lui, molto amichevole nei miei confronti, possedeva una grande e bella collezione di farfalle, anche esotiche, e non di rado andai con lui a caccia di farfalle nel giardino, per boschi e prati. Il cavalierato consisteva anche in bei boschi, al barone appartenevano pure le tenute di Arro e Kurküll. Dopo che ebbi 17 anni, divenni molto più di casa, sempre benvenuto ospite.
Tra Jootma e Lechts: Elisàr e Agi
La diciassettesima estate della mia vita mi avrebbe donato una bella festa e, contemporaneamente, l’aumentata percezione della mia passione nell’amore per Agnes. Al 1. luglio era l’anniversario delle nozze d’argento dei miei genitori. Vi furono i preparativi; nel salone di Jootma avremmo fatto una rappresentazione teatrale. Le prove, nel castello di Lechts. Per me, principalmente l’occasione di rivedere Agi e lasciarmi ogni volta incantare da lei. Katja sua sorellastra partecipava da attrice. Il mattino delle festività, il barone Friedrich v. H. giunse a Jootma per porgere gli auguri ai miei genitori: approfittai dell’occasione per accompagnarlo a casa, per vedere Agi, visto che lei da dodicenne non avrebbe purtroppo partecipato alla festa. Mai corso più in fretta con i cavalli: 20 minuti per i 7 chilometri. Due magnifici cavalli bianchi maculati di grigio, volarono. Appena arrivati, brevissimo soggiorno – purtroppo! Fugace saluto ad Agi, poi la baronessa Alexandra mi ricondusse, assieme a Katja, a casa, questa volta in una carrozza trainata da quattro cavalli neri. Fu una festa veramente bella ed indimenticabile. Circa 30 ospiti da fuori, da Reval e Pietroburgo, restarono per la notte. Poi, tutti gli ospiti dai cavalierati. Ebbe successo la rappresentazione, nella quale avevo la parte dello spasimante, evidentemente senza lo stimolo che avrei avuto se ci fosse stata anche Agnes a recitare. La sera due grandi tavolate nella sala da pranzo e pure nel salone. La mia cara madre, nel suo vestito grigio-viola di seta, tranquilla, contenta e nobile; per lei una impresa non di poco conto, anche se per l’occasione non mancarono gli aiuti. A Jootma, in quegli anni c’era un gran da fare, specialmente d’estate. Al servizio di mio padre c’era il cocchiere vetturino che doveva occuparsi di tre o quattro cavalli e sedeva, imponente nel suo lungo costume, alla guida. Divisa ripresa dalla Russia. Per il giardino, un giardiniere che d’inverno si occupava anche del riscaldamento con le innumerevoli stufe, un autentico anziano estone, con barbetta a punta ed il tuonante nome di Mars. Poi la cuoca e la domestica e, ogni tanto, la giovane aiuto – la scura Anni. Per lo più, gli estoni erano biondo chiari. Tutti ci servivano contenti. Vi furono anche ex servitori che vennero a fare gli auguri a mia madre. Il viaggiare in carrozza era il mio divertimento principale, e più tardi dovetti rinunciarvi a malincuore. Avevamo un bel «Char-à-banc», una carrozza leggera, per noi giovani, oltre che il calesse per due cavalli usato di regola da mio padre; per l’estate avevamo il calesse più grande; quest’ultimo usato a «Troika» con tre cavalli. Per quanto possa sembrare ridicolo, un momento di particolare esaltazione fu per me la guida della grande carrozza con i quattro cavalli, dopo aver accompagnato gli ospiti alla stazione. Cè da ricordare il poeta Lenau, a me tanto caro: agili destrieri, di quattro battevano gli zoccoli, tra fiorite lande contenti.
Quando mi spostavo a Lechts, lo facevo con una squadra leggera, che guidavo io stesso con il lungo ed elegante frustino al mio fianco. Se ci andavo a piedi, cosa rara, il padre di Agi mi faceva rientrare la sera nella sua carrozza. Lo ricordo volentieri. Una volta, scherzosamente la sua piccola figlia osservò che avrei dovuto sapere quanto a suo padre piacessero i giovani ragazzi carini. Vi recitai spesso i miei poemi, in quel luogo c’era grande attività intellettuale. Scherzosamente, mi soprannominarono il «piccolo Goethe» e la baronessa aveva intuito che volessi bene a sua figlia Agnes; lei stessa, una donna di spirito che poteva sorprendere per la modernità delle sue iniziative, tenuto conto delle sue origini. I bambini di avi ne avevano contati oltre 16. Ogni tanto c’erano, a tale proposito, anche discussioni. Il principe Bismarck non poteva contare i propri avi in quanto il lignaggio paterno aveva una donna borghese. Agnes osservò che dovevo essere contento di discendere da una buona, vecchia, istruita famiglia, che aveva più valore di un nuovo titolo, di un conte che non aveva ancora un «nonno»; qualche cosa di simile l’ho anche sentito a Lucerna, da parte di una svizzera. Vi era qualche cosa di vero, infatti è solo il nipote che cresce, integrandosi nel nuovo mondo. Il padre di Agnes aveva la carta da visita con il titolo di barone e lo stemma colorato con i tre anelli d’argento su sfondo nero, nel mentre che la baronessa e Agnes avevano fatto stampare le loro carte da visita senza alcun predicato nobiliare, unicamente una corona a sette punte. In quei circoli chiusi, dove chiunque sapeva tutto di chiunque, era una trovata innocua; al di fuori, quelle carte da visita non le avrebbero comunque mai usate. Mio padre era un uomo retto, sicuro di sé ma cresciuto nella cittadina di Reval, io dovevo, cresciuto in questo ambiente, farci i conti e anche farmi valere. Forse, molti si sarebbero atteggiati all’opposizione o persino diventati democratici, ma io che mi sentivo «più aristocratico» di altri, seppur non da clan, non ho mai pensato di distanziarmene rinunciando alla mie idee.
Ero convinto che i più nobili di una comunità dovessero esserne alla guida, che tale gruppo potesse acquisire nuove forze che con l’apporto dal proprio popolo. Avevo già allora dichiarato che la decadenza della nobiltà sarebbe stata indotta da un rifiuto al rinnovamento dei loro membri. La funzione e significato del monarca era di realizzare questo completamento. Dissi le stesse cose dopo la guerra mondiale, nel 1919, sotto altri contesti, parlando di «Eudemocrazia», con la guida dei nobili di tutto il popolo, come in Germania dove non presente da conquistatore straniero ma era vicino al popolo dello stesso suo sangue. Ho convinto mio padre a far confermare il nostro statuto di nobili. Ciò avvenne con l’imperatore Alessandro e fummo inscritti nell’archivio; altrettanto il nostro stemma con lo scudo ed il cuore d’oro e le due croci d’argento. Allorquando il nostro parroco Wilberg, radicale di sinistra di famiglia estone, espresse il suo disappunto a mio padre per questi passi, mio padre osservò che lui non l’avesse fatto di sua iniziativa e spiegò: «Non ho nessun diritto di rifiutarlo ai miei figli in quanto non avevo acquisito io i titoli nobiliari, li avevo ereditati dai mei avi, e pertanto, quali miei e loro eredi, ne avevano diritto. Questione di diritti, pensai, che ne sia d’accordo o meno. Bravo! Questa fu una risposta degna di lui. Pochi sono coloro che hanno il senso dei diritti degli altri, anche diversi da loro. In questo senso, assomiglio a mio padre. Pertanto, anche più tardi, ho sempre rispettato anche il più semplice degli individui del popolo, con la gentilezza e la tolleranza, molto oltre quanto vien fatto dalla più parte dei fautori per la libertà e dai plutodemocratici. Ma in Lechts non vi fu che questo tergiversare tra Agnes, Erika (la seconda sorella) e me; vi furono anche seri discorsi su problematiche religiose, io portavo avanti le mie, allora caratterizzate da tendenze verso un cattolicesimo storico. Furono, da parte loro, portate anche idee originali: se sole e astri fossero degli esseri, cose espresse persino da Goethe a Eckermann. In breve, ci furono stimolanti passeggiate lungo i viali dei giardini del castello, i cui vicoli nascosti predisponevano a questi discorsi. Poi, intramezzavano con il gioco del Cricket, molto ambizioso, o una gita in carrozza, al mattino un bagno ai piedi con il signori che aspettavano che le signore avessero finito il loro. Ma, già allora, non sopportavo l’acqua fredda del fiume e ci ho presto rinunciato. Uno dei pochi incarichi della mia vita lo ebbi dalla baronessa Schilling zu Jurgensberg e consistette nel dipingere il catafalco mortuario di suo figlio Alessandro, di cui fu compagno mio fratello Johannes. Il suo dodicesimo figlio Cäsar ebbe quali padrini due imperatori, il russo imperatore Alessandro e il vecchio imperatore Guglielmo; lei era una nata contessa Wartensleben di Germania. I suoi due figli gemelli Georg e Geomar furono miei camerati a St. Pietroburgo con i quali rientravo per le vacanze in Estonia, spalla a spalla, quando diventava notte durante il tragitto che durava otto ore.
Indice dei contenuti
Verità o poesia?
Sul meridiano di Delos
Eredità materne normanne
Eredità sprituali paterne
Il lato baltico
L’ultimo secolo dei miei avi
Nascita – un sacrificio al piacere
Mio padre – il saggio dal cieco credere
Zia Mathilde von Maydell
L’amica spirituale del bambino
La prima morte
La scuola a casa
Baltici – non russi
Fuori, nella vita nemica
II primo giorno di scuola!
La prima magia della scena
Un allegro – raro cristiano
Carlo I. Stuart?
Rinuncia alla festa dell’incoronazione
Il trasloco nel castello di Jootma
Nuovamente a Reval
Megalomania russa e democrazia
Il secondo decesso
Il nome, significativo e valido
Il giubileo di mio padre
Nobiltà d’animo
La signora povera
Tra Jootma e Lechts: Elisar e Agi
Trasformazioni
Ultimo anno di scuola a Reval
Io e il mondo russo
Pensieri che precedono
San Pietroburgo, la vecchia imperiale
La lotteria dell’esame
Una coincidenza: Eduard von Mayer
Sant’Anna in San Pietroburgo
Un anno pesante
Davanti alla decisione professionale
L’università e l’idealista
Nella famiglia del pope russo
Il solitario studioso di giurisprudenza
Il giovane pensatore e dottore delle anime
Davanti alla grande decisione
La miseria della gioventù maschile
Verso il destino
L’emigrante
Accanto alla morte
Falsa santità
Autoidentificazione
Dal carnevale
Oltre le alpi
Primo incantesimo meridionale
Melanconia a Monaco
Da Monaco a Estonia
Alienazione
Nostalgia per la lontananza e amore vicino
Tempi universitari berlinesi
La morte di mio padre
Sorrido a questo mondo di lacrime
Tragedia della sincerità
Minimo nella vita
Legame vitale e viaggio in Italia
Un intermezzo – pensieri
Nell’estate tedesca
Un piccolo genio
Serata a Spielhagen
Risveglio amorevole
Amor cortese e degli amici nella letteratura mondiale
Dal meridione al Settentrione, dal Nord al Sud
Un inverno a Roma
Il nuovo Credo
Un nome come te – specchio sincero
Riscatto e non
Ritmo delle lingue
Meravigliose forze della vita
Fino von Grajevo
I destini delle mie tragedie
Berlino – Cure – e vivaci settimane di vacanza
Luminose settimane sul lago di Ginevra
Un altro tentativo a Berlino
Pesanti prove
A proposito di ricupero nella vita amorosa
II compito dell’Europa! – o il tramonto
Firenze: una tappa della mia vita