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Tecnica e cultura – Parte II – Le fonti della tecnica

Le fonti della tecnica

7. La personalità, entità organizzata

Molte le valide cose che la tecnica ha svolto per l’umanità. Ma non è una pseudloclassica divinità che, irresponsabilmente ed arbitrariamente, distribuisce i suoi tesori, ma è l’uomo stes­so, in un faticoso ed obbligato lavoro di generazioni. Quanto di valido la tecnica ha realizzato, l’ha fatto l’uomo per se stesso; la tecnica non viene valutata se non se ne comprendono le sor­genti umane, il perché, il come e per cosa, di questa lotta con­tro il caos della natura. Perché di lotta si tratta.

La pacifica costruzione dell’universo è continuamente interrotta, e l’unione delle forze prigemie ad atomi, cristalli, cellule, sistemi solari ed esseri viventi, viene continuamente allieviata alle creative forze d’attrazione opponendovi con successo le forze prigemie, forze creative date dall’amore – di Eros il demiurgo universale1 – che agiscono troppo spesso per egoismo. A questo degrado, la lotta vuol ovviare, ma non fa altro che creare ulteriore distruzione. Tuttavia, il suo ultimo fine è una forma unitaria del mondo. Non generata da una volontà creativa, la lotta, tramite giri e raggiri, non può essere produttiva pur volendo trasformare il caos a cosmo. Se la fame, quale radice della lotta dell’uomo per il cibo, se non con la violenza, questo l’uomo lo fa che per lottare contro il proprio decadere e distrugge in tutta tranquillità l’ambiente che ha, da parte sua, da risolvere, per conto proprio, due problemi: dall’ es­terno per causa dell’uomo e dall’interno per le leggi del meta­bolismo. Così la fame diventa una vera lotta con violenze e difese: forza contro forza, potenza contro potenza – una va e vieni, senza speranza fintanto che toccò il regno animale, fin tanto che poi l’umanità, con la sua varietà portò a contrapporre esseri viventi a resistere e, d’altra parte, altri a combattere i suoi simili e diventarne padrone. Sempre nella stretta con­sa­pe­vo­lez­za della propria fame, nella paura della propria morte, il proprio sentimento agisce ben oltre la sua sfera personale. Quale elevata missione, agisce nella natura rendendola utile -ai propri fini vitali, sì! Ma quanto realizzato nell’ambito di brevi ed immediate contingenze personali, con scopi a sua difesa, diventano eredità per tutta l’umanità. Quanto ogni singolo individuo, con apparente egoismo, ha saputo carpire o imporre alla natura, è ottenuto per il disegno di tutto il mondo; anche la tecnica non è che una via al cosmos, il cui percorso è dato esclusivamnte dalla vita individuale in quanto essa rappresenta un germe cosmico.

Cosa si erge nell’uomo contro la morte, se non una potenza individuale che si sente minacciata nella propria esistenza? Completamente per proprio conto, la personalità quale in­di­vi­dua­le forza dinamica di ogni individuo, vuol costruirsi un cosmo, a misura delle proprie forze– nel suo piccolo – da sé e attorno a sé. Un tale momento è rappresentato dal con­ce­pi­men­to, un tale caos la decomposizione dello spermatozoo nella materna cella ovarica – nell’essere fecondato la forza in­di­vi­dua­le della personalità entra in gioco e fonda un nuovo in­di­vi­duo. Non «da soli» si sommano padre e madre nell’infante, no: unicamente la forza individuale della personalità unisce, da terzo elemento, le parti ereditarie di padre e madre, ed è quello che attrare, da nucleo cosmico, il nutrimento dal corpo ma­ter­no e guida la creazione dell’embrione fino alla nascita. Dopo la nascita, sviluppa il corpo fino alla maturità e a sua volta ne guida la lotta contro la dissoluzione, contro la fame e la morte, non per predere il proprio regno, se non il copro. Questi è lo strumento della sua missione: portare sempre e sempre più lontano la creazione cosmica. Le porpiretà di padre e madre, che hanno ripreso personalità quale grezza materia prima e fatta diventare nel corpo un’entità individuale ed unitaria, sono il suo mezzo per affrontare creativamente la realtà. Ma queste disposizioni d’animo e somatiche sono anche la zavorra che si appende e troppo spesso distoglie dai suoi obiettivi, la decisa sovrana che schiavizza l’ambiente. La vita non è altro che questa lotta interna per il predominio tra la propria per­so­na­li­tà e l’eredità genitoriale. La suo termine – nella morte, la personalità non ne esce intrasformaa dalla vita. Entra nel germe di in un’altra esitenza, porta nuovamente più o meno superiorità all’essere umano a seconda di come la precedente ha saputo gestire la vita trascorsa: persa ad ogni influsso es­tra­neo ed indebolita, oppure sua propria e crescente. E così di seguito, ad ogni passaggio delle lunghe incarnazioni. Acnche se richiamata dall’estranee individulaità genitoriali, la per­so­na­li­tà agisce ulteriromente parimenti, ma quanto vien trasmesso ai propri figli non è che la maturata eredità biologica, migliorata o peggiorata, uniformata o suddivisa – un facit della propria condotta di vita. Quanto incompresa sia questa fattispecie etica, che l’uomo possa influire sull’azione cosmica della per­so­na­li­tà dei suoi figli sia, pesantemente per propria incoerenza, che per proprio autocontrollo. Questa non è metafisica spri­tis­ti­ca, ma fisica – essere, senso e consegiuneza etica dell’ere­dia­rie­tà, spesso e volentieri richiamata, quale entità indipendente, contro l’esistenza della personalità. In verità: la con­ca­te­na­zione deelle generazioni non è che un circonferenza senza fine delle personalità, alle quali, anime erranti, la procreazione dona l’occasione di educarsi vicendevolmente – l’un l’altro, per compensare il cosmo.

Propriamente, una più precisa storia della tecnica di­mos­tra che in ogni uomo la sua personalità è forza organizzativa, formante dapprima il suo corpo e poi, per il tramite delle sue disposizioni, l’ambiente circostante, quanto in senso stretto vien ritenuto tecnico, ha radici nel suo profondo essere. Come il lavoro, quello tecnico, si presenta unilateralmente e quale opera disincantata, così tutta la tecnica non è che parte di una sollecitazione cosmica, unilaterale ma completamente com­pren­si­bile. Nelle sue forme più elevate quali la politica, la scienza, il lavoro artistico, confluiscono negli obiettivi dell’u­ma­ni­tà, attuandone praticamente un’organizzazione delle forze naturali specie nei campi esteriori – trasporti e commercio – ma nei suoi punti deboli e più estesi, in genere il dominio della natura e il perseguimento affatto di obiettivi, si copre con lo spirito dei suoi creatori e di quanto vien prodotto dall‘​uomo in genere, la tecnica vicina alla sua sorgente, ai sentimenti dell​’ uomo che cerca la sua via superando i confini della natura, stravolgendola. Pertanto un giudizio sulla tecnica non può prescindere da questi atteggiamenti personali.

Il corpo strutturato dai milardi di sue cellule e per se stes­so la maggiore dimostrazione ed espressione di una sua im­ma­nen­te e sovrastante forza individuale dai quali l’enorme ridda di circolanti forze prigemie nasce una forma di apparente sta­bi­li­tà e continuità: sempre e comunque, più unitarie dei gruppi di mondi del firmamento le cui stelle si rifuggono vi­cen­de­vol­mente, seppur apparendoci come immobili immagini.

Accanto alla testimonianza della forma del corpo, la con­sapevolezza dell’uomo non è che un debole certificato, sempre pronta ad autoconfutarsi. La cosapevolezza, in quanto tale, non è che una corrente secondaria, un ipertono del fatto reale, ma pertanto la più sottile misura degli stati intimi e per l’individuo stesso, il contenuto della sua vita: e pertanto, malgrado tutto, un primo cartello indicatore e cooperatore delle opere dell’u­ma­ni­tà. La consapevolezza, il più delicato ed intimo degli organi umani, quale antenna e cappello della personalità, lo istruisce sugli stati del mondo esterno – misurati alle proprie vibrazioni del mondo intimo, misurandone in ogni istante i rapporti interiori ed esteriori, lo rende edotto della fuga in­te­rio­re delle forze prigemie ribelli – nella fame – e negli esterni attacchi della natura. Spesso ingannata, la personalità si riferisce a questo ambasciatore e ne prende consiglio per iniziare le sue lotte per l’autoconservazione e figurazione del mondo – la storia delle umane imprese, tutto lo sviluppo, anche quello tecnico, non è che la ricaduta di quanto, da sem­pre, l’umanità ha percepito.

8. Animismo e tecnica

Spesso, la consapevolezza si inganna, ma non si è in­gan­na­ta proprio in quello di cui si è dubitato maggiormente: che avesse parlato alla personalità del proprio corpo sotto le spog­lie di un’altra personalità, uguale a lei, accanto a lei e contro lei, a voler creare il mondo. Che abbia, umanizzandolo, rav­vi­va­to il mondo, che abbia riconosciuto forze individuali in ogni struttura della realtà, che affermò divinità: questo, spesso diffamata, ma grande opera della consapevolezza e con­tem­po­ra­nea­mente il più valido servizio allo stile di vita, l’intimo della cultura come l’esteriore della tecnica – fosse stato un errore! Il sentimento religioso, più tardi spesso la catena di deboli per­so­nalità, era legata all’inizio prigemio che attribuì il colpo d’ala alle personalità creative.

Non ci fosse stata la credenza di divinità nella circostante natura, di un’anima in ogni essere della natura, la tecnica non si sarebbe mai mossa.

Ma doveva muoversi, era la prima conseguenza della nas­cita dell’uomo: talmente potente la forza interiore del suo corpo che si mostrò dapprima ed interiormente nella com­pren­sione del pensiero cosmico, nel riconoscimento di eterni centri del mondo, di divinità e poi, esteriormente, nella realizzazione della propria centralità nella simildivina padronanza della natura, umanizzazione divina. Venerazione di sè stesso e di tutte le altre divinità, l’uomo costringe la natura; doveva essere servizio divino, cosa fece, servizio divino, la prima tecnica.

Quanto è rimasto come tracce nella religione che considera la natura sua nemica, il cristianesimo storico ancora attuale nel suo pragmatismo, quanto più intensamente deve aver agito sul proprio sentimento, allorquando la vita credeva ancora in se stessa, l’uomo quale ideale della vita! Non ancora bardato da generazioni di eredità culturale, contrastando, soffrendo, rin­cuo­ra­to, ogni azione che appariva utile era identificata essere un pio sentimento: partecipare ad una cerchia di poteri viventi. […]

Siccome l’uomo si riteneva coinvolto in una vita ina­bis­sa­ta, credeva analogamente nelle cose della natura che affer­ma­vano le proprie forze, agenti per o contro di lui. E le sue cre­den­ze corrispondevano ai fatti: quanto dava al sasso la sua durezza, quanto rinforza i fuggenti atomi, non è una pallida «forza» della cristallizzazione, ma l’appropriazione individuale delle spazio, individuale realizzazione dell’essere; non coesione – una parola!! ma una intima ed insuperabile unione, di in­di­vi­dui cristallini – esattamente, come nell’uomo, la personalità e nella vita in comune agisce il senso civico. E quanto nell’albero sospinge a diventare tronco, fiori e frutti, non è altro che la forza individuale che, nell’uomo, lo sospinge a formare il suo corpo in ottanta anni di vita, nonostante tutti i cambiamenti, con modalità personali, continue e unitarie. Non errore antro­pomorfo, animistico, ma un genuino prender atto della natura che gli fece rendersi conto di tutti i suoi simili, avere a che fare con loro, fratelli inferiori o superiori, pregandoli o cos­trin­ge­doli per un aiuto: erroneo che il presupposto dell’arbitrarietà delle azioni proprie od estranee. Non fu che quando incominciò a perdere il vivo rapporto con la natura, seppur nel ricordo di antiche macchinazioni, pur subendone, impotente le grandi forze, erede soddisfatto in piccole cose da una sottomessa na­tu­ra, la propria cerchia garantendogli una sicurezza che nulla significava in assenza della benedizione di una vita in comune: qui ci fu uno strappo con le forze della natura. Alla semplice ovvietà di una simbiosi tra forza umana e forze delle cose natu­ra­li, prese posto una etichetta arcaistica supportata da usi vampireschi di un dotto servizio divino. Ma all’inizio non fu così. L’uomo per non soccombere, la personalità dell’uomo per mantenersi ed agire al centro cosmico, si appropria di cose della natura, struttura le potenze indipendenti della natura circostante, organizza le litiganti o inattive forze dell’ambiente, le unisce tecnicamente a proprio vantaggio e a quello del mon­do. L’uomo non risentiva che lo stimolo delle necessità, non senza una qualche soddisfazione, ma anche il dovere, in fun­zio­ne delle sue capacità, con l’aiuto giustificato delle potenze indipendenti, di dar seguito al suo spirito creativo a proprio favore, in verità per la vittoria del pensiero cosmico. La tec­nica, padroneggiando la natura, nel suo ultimo fondamento, all’i­ni­zio del suo divenire, non è che la prima realizzazione della profonda coscienza umana; forza creativa tra altre, divinità tra altre divinità, oltre tutto al servizio di un bel stile di vita.

9. La tecnica primitivo-religiosa

I primi tentativi della tecnica avvennero sulle armi, pregni di sentimenti religiosi. Sia al servizio della fame, pungolata-attaccante, o in difesa di una vita in pericolo, forma superiore della fame – la lotta era una tal concentrazione delle forze vitali, un ardore del senso vitale, che ne guadagna anche il lato religioso, l’individuale rapportarsi alla natura. Il lottatore diventa eroe, i nemici assumo le sembianze di giganti, siano uomini, bestie o forze della natura: tutto prende vita. Favole e saga, questi libri santi della religione naturale, mantengono la memoria delle prime lotte dando, non per nulla, grande rileivo allârmaed alla sua preparazione; le armi di Achille, forgiate da Efaisto, Sigfrido da lui forgiata all’incudine … il tutto rac­con­ta­to con mistica venerazione dell’arma. Rabbrividiti, allorquando i primi uomini crearono le prime armi, come se i pericolosi demoni perissero per loro mano e vecchie canzoni, frasi in­can­ta­to­rie devono aver accompagnato il loro lavoro. Le antiche saga ne testimoniano quando le divinità-pianeti vengono re­la­zio­nate ai minerali: Mercurio con mercurio, Marte con il ferro, Satruno con il piombo – L’alchimia li ha trasferiti nella me­di­ci­na moderna … Viva autostima contro vive individualità, uniti a vive potenze – così la lotta, l’arte delle armi, così la prima tec­nica. La nomea, di vite religiose e vicine alla natura, ac­com­pag­na le armi, i più anziani strumenti: nulla cambia la sobreità delle moderne fabbriche d’armi, ma risvegliano sogni la vista del scintillio di una forgia. […]

Il dio del fuoco, spasimante sceso dal cielo, per nutrire, ricevette dall’uomo legname per proteggerlo dalla pioggia, gli venne dato un tetto, costruito il primo tempio, un albero-tenda, prese posto, accanto ai suoi greggi, quale guardiano del tempio, abbandonò i nidi tra i rami degli alberi – finalmente c’era una casa, la cui anima è il focolare. Il fuoco scaldò e venne goduto dall’uomo, avvampò i minerali e bruciò le argille, il fuoco preparò i cibi per il sacro rito quotidiano, pozioni per le ore di pericolo. E quale associazione meravigliosa con la divinità, allorquando l’uomo, sfregando legno a legno, imparò a creare il fuoco, chiamando Dio, esorcizzandolo, implorandolo! L’arte della cucina, la chimica, il trionfo di tutte le nostre scienze naturali fu creato quando l’uomo tentò di dominare le misteriose forze vegetali e della terra, con l’aiuto di spaventose divinità notturne – fuoco e luna – creando terribili e velenose pozioni magiche. Indietro e troppo lontano, ci portano le sin­gole piste delle leggende con streghe, agghiaccianti tra fumi e fuochi, che all’origine erano ben altro, una benedizione e piene di vita. Circondato da forze che potevano portagli sia sollievo che nocumento, nel credere in sè ed in loro, le ha obbligate a porgersi e porgere la mano. Convinte, le divinità crearono una cerchia attorno all’uomo, un vitale cerchio magico, che lo proteggesse a fronte della distruzione, dapprima di giorno in giorno, poi punto fisso da cui ha sollevato il mondo dai propri cardini, opposto di farne un cardine. Di nuovo: la tecnica, via allo stile di vita, origina nell’intima intuizione dell’obiettivo cosmico, della protoreligione della natura.

10. Il caso e la tecnica

Fondamento e fase prigemia della tecnica un servizio di­vi­no primitivo, quale fonte un sentimento individuale della natura e spesso che una superstizione feticista. Ma l’origine da cui sorgò, se non dall’uomo! se non la personalità! Si può ben dire: la tecnica si è sviluppata, il caso ci ha messo lo zampino. Ma come avrebbe, il caso, potuto essere d’aiuto alla tecnica, se un cervello individuale, nell’attimo del caso, non ne rico­nos­ces­se l’opportunità? Anche la più minima miglioria quasi senza significato non è successa per conto proprio, ma creata da un chiaro spirito. Anche se più menti illuminate si ritovano nel medesimo progresso, ogni singolo lo realizza con un atto crea­ti­vo, un intervento organizzativo della realtà: la tecnica si sviluppa che in una sequenza di atti creativi. […]

Ma anche la personalità non scuote i propri doni dalla manica, quanto dà, non lo trova all’angolo della strada dedicata «al caso» – lo acquisisce con il contributo di tutto il suo essere, con il suo sangue. Certamente: per lui è naturale lavorare, or­di­nare, organizzare – ma quanto ne soffre per causa del caos, il disordine, la distruzione! Certamente: non può far altro che costruire, dare forma, indirizzare, ma quanto più doloroso è il duro contrasto tra l’ordine di un mondo di chiarezza visto dal suo cuore e la opaca realtà che risente sul suo corpo. Le ge­ne­ra­li necessità vengono, da parte di personalità superiori, mag­gior­mente osservate e sofferte: la forza creativa è impaurita dal proprio strumento, il suo corpo che si oppone, sfuggendo ai suoi voleri, aggiungendosi all’inadeguatezza dei dintorni. I muscoli dell’organizzazione preferita sono rigonfi, tutto pronto per il massimo, nel cervello ruotano e ruotano, si collegano e si allacciano le sensazioni, i sensi sono eccitati dalla somatica e spirituale fame d’organizzazione e poi sopravviene il caso. Forse accenna che ad una possibilità, crea un primo labile col­le­ga­mento: subito si annunciano i sensi alla sua con­sa­pe­vo­lez­za, tornano tutti i ricordi, un breve campionamento – e nel divario si insinua il fatto nuovp; la volontà, finora ritenuta, si precipita senza ritegno in quella parte del corpo pronta all’a­zio­ne, si esternano nella natura, riuniscono, assemblano, quanto si fa sentire, come d’abitudine, la personalità crea il mondo, che in lei cerca l’espressione, sospinge ad essere rea­liz­zata – l’azione geniale, scopritrice, è completata, ma è vissuta, sofferta e contestata.

«Nel sangue, l’anima»; unicamente grazie ad un incon­di­zio­nato intervento e la disponibilità al sacrificio di sè, la per­sonalità può assolvere al suo compito; il primo strumento d’organizzazione, il suo corpo, deve poter assecondare con gioia la natura, unicamente se le mille braccia ed occhi della tecnica sono dirette dalla vita personale, si può sempre più avvicinare al cosmo.

11. Scopritori tecnici prigemi

Nella grande lotteria della confusione nella natura, si tro­vano, per proprio conto, ogni immaginabile combinazione, ma la fortuna torna utile solamente a chi intende ordinare or­ga­ni­ca­mente la propria vita, il caso vien compreso e preso da coloro che vi vedono un salvatore o vettore di grazia, seppur negli stracci della quotidianità. Ogni progresso nasce doloro­sa­men­te, fatto nascere che da grandi personalità, non il signor Nes­suno. Ma questo non contraddice forse il fatto che gli scop­ri­to­ri dei tempi antichi sono mancanti? I loro contemporanei, quale segno di riconoscenza, non ne hanno conservato i nomi? L’ano­ni­mato della tecnica più antica, segno di non personalità? Potrebbe sembrarlo. […]

Non fu ingratitudine della vita in comune che lasciò di­men­ti­care i nomi degli scopritori prigemi. I loro nomi, a quei tempi, avevano un carattere di feticcio e si richiamavano a nomi propri di animali, non sparirono ma finirono nel Pan­teon; le loro azioni personali divine creazioni e con­tem­po­ra­nea­mente al servizio divino, furono assegnate alle divinità. Furono, comunque, azioni personali.

12. La tecnica artistica

In soffusa luce religiosa, abbagliati, gli inizi della tecnica, i principianti e pionieri della dominazione della natura. La sto­ria pone il sentimento prigemio del popolo nella vita dei sin­go­li; la cellula inizialmente inattiva incomincia a differen­ziar­si, l’entità si separa e cresce, opposti appaiono, potenze indi­pen­den­ti si contrappongono caoticamente. Le personalità perdono le relazioni con l’insieme, con il grande nome, si trovano in solitudine, con il triste dovere, quale lotta per la sopravivenza, di opporsi alle limitate personalità dell’uomo comune; grande parte delle loro forze, che potrebbero lavorare al meglio, de­vo­no essere disperse per ottenere un minimo di soddisfazioni. La storia quale tragedia delle grandi personalità, l’arena dove si dissanguano, da martiri, nel sacrificio della loro missione divina. Questo vale anche per gli scopritori, i grandi e positivi promotori dell’esterna cultura.

Ancora: creare non vuol dire fare qualcosa dal nulla, ma bensì forgiare da materiali grezzi, senza forma e contenuto, forme da ottuse, pesanti ed inanimate, a leggera e libera fi­nez­za, da dure, buie e rigide, a vitali. Inventori creativi, ogni modifica architettonica ad elementi del tempio si rifletteva su tutta la costruzione: quando Ermogene creò lo pseudo dipteros che aveva apparentemente l’aspetto di un doppio colonnato, in realtà era che un unico le cui colonne più interne erano raf­fi­gu­ra­te sulla parete del tempio – con pochi mezzi ottenne un’al­tret­tanto grande effetto estetico, e fu anche lui che trovò nel tempio di Dionisio a Teos la più bella misura per la distanza delle colonne, l’eustylos di due diametri di colonna [Vitruvius]. Callimaco da Corinto avrebbe scoperto, da un vaso intrecciato, il capitello corinzio che poi Skopas applicò al tempio di Atena di Tegea, allora un’azione organizzativa, un progresso nella tecnica delle costruzioni. […]

Impossibile la verifica se è stato tramandata l’identità del vero scopritore o, invece, è quello di un fortunato imitatore: così un Ecfantor avrebbe scoperto l’uso del colore per il tramite delle tegole bruciate, Apollodor l’uso del pennello in luogo del punteruolo; quanto si racconta dei pittori antichi, dalle omb­reg­gi­ture di Sautra, Cratone di Sikose e altri, non si lascia decisdere se lo furono veramente o invece utilizzatori di una tecnica già in uso. Per contro, si racconta esplicitamente dell’a­te­niese Eumaros (precedentemente il 500 d.C.) che abbia ini­zia­to a nascondere la differenziazione di uomini da donne, la pura esteriorità della donna con la posa di un bianco. Poi Kimon ha migliorato la rappresentazio degli abiti, dipinto ri­trat­ti di profilo e compreso lo sguardo quale mezzo d’es­pres­sio­ne artistica. Polignoto riusci a dare ai tratti del suo pennello, di far trasparie dai vestiti tratti del corpo – quali erede di tutti, ma non scopritore, è poi apparso Apelles, esattamente come Raffaello o il Tiziano che si affermarono all’apogeo della pit­tu­ra, non come nella scoperta di nuove vie, ma nella loro unione ed approfondimento. Dapprima Giotto riuscì a trovare il modo di collegare rigidi santi irregimentati a vividi gruppi, Masaccio sensibilità personale, tratti caratteristici e costume, Jan van der Eyck introdusse l’olio al servizi dell’arte, fino allora usato che per dipingere pareti, permettendo di rappresentare la realtà delle molezze della vita, Leonardo da Vinci e il Gior­gio­ne, con luci e ombre, dato vita all’anima della pelle e permesso nuove espressioni dell’animo, Signorelli e Michelangelo an­nun­cia­rono la forza dei muscoli: entrambi aveva vissuto quanto si permisero rappresentare. Quanto un tale scopritore artistico ci metta di tutto cuore, lo racconta l’aneddoto di Palissy che credeva di aver scoperto il segreto dello smalto e stava cer­can­do di provarlo, allorquando il fuoco da lui attizzato stava per spegnersi senza esser giunto al risultato e, in mancanza di altro legname, sacrificò, malgrado l’insicurezza del successo, tutti suoi mobili, facendone a pezzi tavoli, sedie,letto, li gettò nel fuoco, e – vinse.

13. L’epoca mondiale tecnica

Eroismo, una necessità per ogni innovatore. Cerca mig­lio­ra­menti tecnici, ci rimette la sua esistenza economica – quanti beni sono stati dilapidati per il sogno di un aerostato dirigibile. Per lo scopritore scientifico, la morte da lavoro è ancora un piccolo pegno, ma potrebbe essere, grazie ai suoi nemici, anche il manicomio; il rinovatore artistico? – un buffone che non tro­va un patrono; segue una personalità nuove vie etico-reli­gio­se, va incontro, in una qualche forma, al Golgota. Proprio in tempi in cui esclusivamente azioni personali possono riscattare i sentimenti, ovunque compaiano le personalità e diventano in­di­ca­tori a nuovi percorsi – la massa è talmente presa dall’ini­mi­ci­zia nei confronti del singolo, nemmeno parlarne di un concreto sostegno, manco lascia all’innovatore seguire la prop­ria dolorosa via, cercando di vendicarsi dello sconcerto che suscita per il fatto di non arrendersi, sperando di trovare una nuova via. Come la narcotizzante indignazione della vergogna aleggia a fronte della possibilità che a qualcuno riesca, in apparente facilità, di trasformare il gravoso caos, dove loro, in maggioranza, vi ci si trovarono indifesi ed impotenti – che uno osi sognare e immaginare, dove la loro, per la più parte, rozza miopia nulla vede. Un grido a svegliarsi dalla loro paura, segreta e repressa, che esista ancor altro che il loro, il migliore dei mondi possibili.

Ma realmente, spesso non ne hanno colpa alcuna e non sanno quel che fanno, quando violentemente bussa alla porta l’angoscia e vi oppongono un corposo benevolo senso di com­pat­tez­za per l’esistenza di massa – le personalità in anticipo nei tempi, soffrono realmente, non consolabili da una qualche sponsorizzazione, se non dall’idea di un mondo più grande. Esiste spettacolo più commuovente di un Cristoforo Colombo in piedi sulla tolda della sua nave che per dieci settimane, sera dopo sera, vede scendere il sole in un infinito orizzonte?! diet­ro di lui, i marinai brontolano e si ammutinano, i suoi stru­menti, ma lui vede, incrollabile, la terra oltre le acque dell’o­riz­zonte. Se questo non è eroismo, allora non è mai esistito. E questo è: l’eroismo in questo smisurato creder in se stessi, in questa disponibilità a rimetterci la vita e la felicità, che, per potersi avvicinare al grande obiettivo, visione per il suo sen­tire, in questa massima intimità della peronalità vive quello, affatto pensato, che esistano potenze superiori al caos della realtà – setimento religioso prigemio. Nei più impietrito, assurdo e diventato tossico, un insensato usuraio dell’anima con riti sulla carta, nelle grandi personalità si risveglia sempre nuovamente, e solo da questa fonte di sentire prigemio, quale espressione e realizzazione si organizzazione creativa, in­ven­ti­va forza plasmante ed attività. Nouvamente, unica e proprio lei, onesta onoranza di Dio, non mera preghiera, ma un ri­chia­mo efficace «Della somma, più bella, più gioiosa, la più per­sonale vita – venga il tuo regno!» Quanto hanno realizzato gli anonimi scopritori ed inventori della preistoria, sulla scorta di punte luminose di vive religioni naturali, questo è ora passato ai martiri del nome. Ma propriamente, quanto più grande è diventato il compito, quanto più il caos regna dopo tutte le vicende, più lontano, estraneo, povero, glaciale, il sentimento della massa manco arrancante dietro la personalità superiore.

 

continua

 

Traduzione Bruno Ferrini

Non dal mio nettare bevesti
la tua divinità;
Fu la tua forza divina a dartene
il nettare.

Schiller

1) Cfr. Lukianos, Amores