L’anima di Tiziano, la psicologia del Rinascimento, capitolo V
Tiziano ritrattista
I primi ritratti del Tiziano erano quelli patroni; nella sua carriera ha ripetuto la tradizione Medioevale, di immortalare i tratti dei pii comandatari. […]
Dei numerosi ritratti del Tiziano, pochi sono quelli restati fino ai nostri giorni, nemmeno quelli dei suoi principi, molti di quelli di persone private non si conservarono per incuria e lo sappiamo da innumervoli testimonianze. Benché il Tiziano riuscì a diventare l’erede artistico di Giovanni Bellini e pertanto si affermò come ritrattista ufficiale (1516); divenne, dopo gli apprezzamenti dei duchi di Ferrara, Urbino e Mantova, inevitabilmente, di moda portando, con la raccomandazione di Pietro Aretino, al patronato di non meno che Carlo V rendendolo quasi parte del bon ton.
Nobili veneziani e di terra, soldati, diplomatici dovevano o volevano possedere un suo ritratto; persino Monsignor Giovanni della Casa, il poeta dell’allegro «Capitolo sul Forno», il legato del Papa, desiderò un ritratto della sua bella, una giovane dama di Venezia.
Ovunque si trovasse, a casa o a Roma, in un piccolo principato o nelle residenze del’imperatore Carlo V a Bologna, Innsbruck, Augsburg, il Tiziano non era sempre del giusto umore e, comprensibilmente, alcuni dipinti, seppur di sua fattura, avrebbero potuto esser di altri di minor livello, così poco il loro contenuto interessava il Tiziano – ma anche questo dimostra una caratteristica del maestro, che dava retta a tutti.
Con la sua natura nervosa, non deve meravigliare che il Tiziano avesse profonde conoscenze sui riflessi della mano sulla psiche che applica con preferenza: spesso lascia alle dita afferrare un oggetto od un libro, uno strumento o un’arma la cui innocuità è comunque garantita. Se poi quest’oggetto, naturalmente, è utile nel caratterizzare il soggetto da ritrarre, esso non rappresenta uno sterile mezzo per togliere il soggetto dall’imbarazzo.
Il libro mezzo chiuso riflette lo sguardo pensieroso dell’uomo in Hampton Court (1518–1520) o quello del saggio scienziato del presunto Andrea Vesalius, l’anatomo (1550) o dei tratti pedanti del viso dello storico Varchi (1550); l’amabile prelato Beccadelli lascia invece cadere una missiva (1552) e l’imperatrice Isabella tiene un libro di èpregheiere (1554). La giovine donna del Louvre nel suo ritratto attraente ritratto (1520), pettina con la destra i suoi bei capelli, la sinistra verso una coppa di linimento; la «Bella» (1527) gioca con una pesante e preziosa nappa casualmente tenuta in leggerezza rafforzandone l’impressione di assertività, sapendo dare, noblesse oblige, al suo sguardo una freddezza malgrado i suoi vivi sentimenti – non fosse anche la duchessa Eleonora Gonzaga da Urbino, ma un’amante del duca, scelta con gli stessi gusti con il quali aveva scelto la moglie, Lavinia, figlia del Tiziano, solleva una coppa di frutta (1550), una simpatica ragazzina di cuore, oppure tiene un ventaglio con il sussiego di una giovane donna (1555) dallo spirito sbirichino, o sviolina la sua collana di perle, da ricca dama (1565). La casuale nobiltà del cavaliere vien finemente significata dal gioco con il suo falco (così detto Giorgio Cornaro 1527–1527), o accarezza il suo cagnolino (Marchese Federico da Mantova, 1523), oppure. Come Carlo V, tiene il collare al suo cagnolone (1523). Anche i guanti non sono mero accessorio ma indice di consapevole nonchalance che si confà sia al severo uomo di governo (Carlo V, Monaco di Baviera, 1548) come pure, nello in sé sperduto – o ritrovatosi – giovane inglese (Palazzo Pitti, 1548) ed altrettanto, nella messa in scena della indifferenza a fronte di spiacevolezze, dell’uomo con il guanto (Louvre, 1518–20).
La mano all’arma del marchese di Mantova, decisa e tranquilla, ci dice dell’eleganza e l’affabilità ma ne risalta anche l’energia e le sue intenzioni; ancor più lo appare Alfonso da Ferrara, leggermente appoggiato ad un cannone con le dita, falsamente innocenti, appoggiate alla spada! (1537, una copia). Nella presa alla spada del cardinale Ippolito de Medici c’è tanta ira quanto in quella di uno smanioso comandante (1533) che non si presenta manco nel potere di un duca d’Urbino, Francesco della Rovere (1537): il braccio, teso nell’obbligato cardinale, una violenta volontà, è più tranquillo nel potente, piegato in attesa. Anche sotto la sua corazza si cela una natura più tranquilla, malgrado il suo decisionismo, nel contempo l’armatura di Pier Luigi Farnese (1546) tradisce un affrettata rudezza, come quella dell’inflessibilità di un Giovanni de Medici capo delle «bande nere» (1546); La magnifica armatura di Filippo II, nasconde per contro un’animo sospettoso, pronto in ogni momento a nascondersi dietro la visiera e di brandire la spada, non per attaccare, ma per difendersi. (1550–53). Non oggetti morti, ma il loro influsso sull’animo dei loro possessori, il loro possesso, grazie alla sensibilità del Tiziano diventano la segreta testimonianza da lui svelata e decodificata. Lo stesso oggetto diventa diverso se diverso soggetto lo utilizza, se altro animo lo porta ad altra mano in un altro contesto di vita. Pertanto, il Tiziano, contrariamente ad un van Dyck, non dà ad ogni soggetto l’identica mano, ma ne mette l’animo sulle punte delle loro dita. Se non li dipinge dal vivo o da buoni modelli (come nel caso dell’imperatrice Isabella) ma da monete o maschere, tralascia le loro mani, come in Francesco (15389, così in Giovanni dalle bande nere; indispensabile unicamente nel primo ritratto di Alessandro VI (con Iacopo Pesaro) la mano, come gesto di raccomandazione. Le mani preferite dal Tiziano sono agili e piene – ciò ben appare nei suoi modelli femminili e nel Cristo delle monete di pegno e nei semiritratti della Pitti, queste mani amichevoli; ma anche quale rozza avidità nelle dita di di Pier Luigi Farnese, imparentate a quale di suo padre Papa Paolo III, ma nel secondo più prudenti, fredde, decise. La mano del Tiziano, la propria, indica una nervosità composta, una agitazione dominata da grande volontà.
Anche questo distingue il Tiziano da altri ritrattisti, che non si ripete e non si riflette nei tratti dei ritratti – un Lenbach traspare dai più diversi tratti, – ma, convinto della propria intrasmissibile peculiarità, fa assumere ad ognuno ciò che è loro dovuto, mostrando sé stesso che nella sua sovrana forza creativa. Ma proprio in questo, i suoi ritratti diventano la spia del suo essere, testimonianze della sua vita interiore e dei suoi terremoti che raccontano degli sconvolgimenti che ebbe nella sua vita nella lotta in ricerca di un equilibrio della sua personalità: unicamente per questo motivo, egli potè suggerire la segreta storia ad ogni movimento ed atteggiamento, in quanto lui stesso l’aveva subita.
La posa del capo, il Tiziano la preferisce in tranquilla posizione mediana che, rispetto al solito, appare come elevazione e non sovraelevazione data da un senso di stesso indipendente dal mondo antistante, e questo «occhio nell’occhio» con il mondo esterno si rafforza con le dimensioni delle palpebre: vi ci immette una intelligente fierezza come nei bei tratti di Isabella d’Este (1534). Ma dove necessario, le avvicina: La duchessa di Urbino (1537) guarda sotto le ciglia, fredda e critica ed anche la soda piccola bocca sembra stia per fare una osservazione di rinprovero; se abbassasse ancor all capo, la sua bocca a forma di mezzaluna si presenterebbe con la natura volpina, come quella di papa Paolo III (1543). Alla bocca, il Tiziano lascia esprimere come il suo eroe prende la vita, in quest’arma d’attacco la più vecchia del mondo ci sono le capacità per raggiungere qualsiasi obiettivo: nello sguardo, riposano. La muta bocca appuntita dell’uomo «dal guanto» gli conferisce un qualche cosa di indeciso che si confà allo sguardo e l’apparente calma della mano; la piccola bocca senza moto dal silenzioso respiro dello sconosciuto di Firenze richiama la dimenticanza di un mondo oltre l’osservatore, lo sguardo disperso in lontani orizzonti; la felice presa in consegna del presente, tradita dal carnoso labbro inferiore del marchese di Mantova, corrispondono allo sguardo affabile di questo sincero amico dell’arte e patrono del Tiziano quale il doge Gritti (1523), nell’unico dipinto di doge tra i sopravissuti del Tiziano ritrattista di Stato, di nuovo si combinano la ferma postura delle labbra ed i piccoli e bassi occhi; un politico saggio, ma un’altrettanto chiusa bocca con labbra più carnose del cardinale Ippolito nella sua ungarica bardatura da magnate indicano una cupa volontà, alla pari di quelle espresse dagli sguardi d’agguato e dai gesti di entrambe le mani. Quasi completamente, scompare la bocca dei due duchi di Ferrara e Urbino, sebbene sembri che ciò avvenga benevolmente, nei loro visi caratterizzati da sguardi estremamente calmi ed acuti, lasciano un sapore estremamente infido. Altrettanto, il cardinale Bembo (1539) lascia un’impressione di astioso dispiacere che trova conferma al costretto sguardo ed il gesto di polemica delle sue dita; scontento nei tratti dell’antiquario Jacopo di Strada (1566), nascoste dietro la barba le sue decisioni a riguardo dell’acquirente della statuetta di Venere, un senso maliziosamente da commerciante – e il Tiziano stesso era occasionalmente un commerciate d’arte!
Limitato, bigotto e sensuale il cavaliere di Malta (Prado, 1535–40); gli occhi dimessi mancano di libera fierezza, attorno alla bocca una oscenità imbarazzante; tiene ai piceri della vita, la bocca del cardinal Farnese (1543) anche sei in modo più spirituale come lo dimostrano i suoi grandi, vividi e seppur non geniali occhi; per contro, in Filippo II la smodata voglia di piacere della sua bocca dalle labbra sollevate si contrappone alla bigotteria dello sguardo rigido e dalla sfiducia emergente dagli occhi sbercianti dalle sue timide palpebre. Pietro Aretino (1545) mostra pienamente la sua geniale assenza di scrupoli: l’audace portameno del capo, lo scuro e fiero sguardo, l’ironia del leggermente dilatato setto nasale, le labbra da buongustaio si integrano, con il luccichio dei pesanti drappi e della catena di cavaliere, a completarsi in un spiritoso, arrabbiato spregiatore dell’umanità e bon viveur che tutto possiede per la grandezza, ma non quella – il Tiziano si riconsceva nel suo amico. In molto simile, anche indiretto e sprezzante, forse non altrettanto scatenato, ma forse portato da più alti intenti, i diplomatico Granvellas (1548). Ai suoi angoli della bocca, un sorriso velato laico e immutabile, non accompagnato da occhi e animo. Labbra arcuate, ma ben appresse, lo sguardo dall’alto come quello dell’Aretino, ma siccome il capo non è così elevato, appare come un freddo manipolatore di uomini, e, accanto all’ Aretino, che una testa calda. Con l’aiuto di quest’uomo, l’imperatore Carlo V manovrava il suo regno che tanto gli pesava, con la sua responsabilità, sul suo animo. Confrontando il ritratto del Imperatore Carlo eseguito dal Tiziano nel 1533 con quello di quindi anni posteriore a Monaco, ci si rende conto che le immani lotte con nemici esterni ed intimi non hanno avuto la meglio della sua tempra, ma lo hanno martellato e stancato. Il fiero aspetto del suo vestito che sfoggiava da trentatreenne è diventato più semplice ed oscuro, ma creasciuta la sua nobile calma, l’energica bocca quasi chiusa, lo sguardo perentorio più nervoso e prudente, ma comunque sempre inflessibile. – Le ombre di Saint Juste si avvicinano all’animo suo. Ferreo il suo ritratto equestre della battaglia di Mühlberg!
Il Tiziano che scopre, sente ed empatizza, mai decompone i tratti, ma li costruisce dal caratteristico all’entusiasmante facendoli diventare un insieme omogeneo e pertanto li rende non solo tecnicamente ma anche belli nei contenuti. Lontano da qualsiasi caricatura, creativi, non si ferma davanti alle apparenze, alle esteriorità, ma ne legge le pieghe della pelle, il caratteristico del bello, dando una vita spirituale al nudo. Il Tiziano ha compreso la natura che libera l’uomo dalla sua scorza di pellicce e piume per arricchirlo di nuovi sensi e forme, nobilitandolo con limpidi sguardi. Ed in verità, la paura di fronte alla nudità è misura di barbarie e perversità.
Giorgio Cornaro, Il giovane Inglese
Uomo dal guanto, Ippolito de Medici
Pier Luigi Farnese in armatura
Filippo II di Spagna in armatura
Gian Paolo Pace, detto l’Olmo
Il dipinto è stato precedentemente attribuito a Tiziano.
Giovanni de Medici fu comandante del
«Bande Nere» del Papa.
Elenore Gonzaga ritratto 2