L’anima di Tiziano, la psicologia del Rinascimento, capitolo II
Colorismo del Tiziano
Anche un Tiziano …
Nessuno come lui aveva i mezzi per elevarsi al di sopra delle sue creazioni, era l’erede di tutto quanto tramandatogli e che portava, risvegliandolo, alla vera vita; in lui, anche l’arte medioitalica, giunta per vie traverse a Venezia, raggiunse un livello di maturazione che superò quello delle sue origini.
Già i suoi contemporanei ne apprezzarono i suoi colori che equipararono al disegno di un Michelangelo; ma non si resero pertanto conto di quanto l’essenza del colore avesse loro portato: la maestria tecnica li ammaliò al punto di non vedere la forza della sua psicologia. La finezza del suo giovanile «Cristo della moneta» e l’impatto della sua ultima «Pietà», la luminosità cromatica ed il bilanciamento delle tonalità, il dominio su luci e ombre – come in «Lorenzo» – la cura con cui elaborava, immaginava, penetrava le masse di colore: tutto questo lo vedevano e lo dichiararono re dei coloristi. Ma lo è, per ancor altri più elevati motivi.
Ogni arte raggiunge il suo massimo per il tramite di propri mezzi espressivi specifici ed ha il diritto di venir giudicata in base a questi. Accanto al tecnico esiste, ad esso superiore, il momento etico, la vita, un punto focale, quello solitamente definito come «contenuto». Anche una tavolozza con le sue macchie di colore, si lascia gestire ed ordinare nelle tonalità in modo da ricevere, per il senso del colore e la sua cura, per meritare «lodevole encomio» – ma pur sempre un esercizio puramente manuale. Ne pieno rispetto del puramente pittorico, si può pretendere un pari contenuto che fa preferire un’opera che rappresenti immanentemente un contenuto riflesso dal colore. Esiste una drammaturgia psicologica del colore: vi eccelle il Tiziano, dando un senso superiore al suo colorismo.
Nessun colore, di per sé, assume un incondizionato valore espressivo, suppur supportato in termini soggettivi, ma un accordo di colore assume una validità in quanto la scala fisica dei colori comporta delle regole misurabili che coinvolgono le leggi fisiologiche della visione tricolore. Un dipinto è composto da accordi di colore: alcuni colori sono tra di loro più vicini ed involontariamente l’osservatore li riunisce nelle masse di colore; altri colori si contrappongono e risultano, come pure i loro vettori, tra di loro estranei. In questo modo, l’artista ha la possibilità, accanto alla composizione del segno, di determinare la composizione in termini pittorici dando una configurazione spaziale alle vicende esteriori rappresentate dai loro attori, ma mettendo in intima relazione i personaggi illuminandoli tramite la scelta e l’attribuzione dei colori. Solo chi è in grado di fare tutto ciò ü pittore al massimo grado; e il Tiziano lo sa fare. Confrontati col Tiziano, la maggioranza dei pittori appare scegliere i colori sulla scorta del momento, arbitrariamente direi, e disunendo quanto, nelle loro intenzioni, vorrebbero uniti.
Persino immagini come quelle di Cimo da Conegliano, di cui apprezzo la sorprendente forza del colore, sono finalmente scevre di quella necessità interiore che rendono e portano l’opera d’arte ad espressione di un ordine più sacro. Quanto è raro! un dipinto come quello di un Filippino Lippi nella Badia fiorentina che riesce a dare nei colori un senso soprannaturale: il san Bernardo, avvolto in scuro manto, siede in un paesaggio desolante e senza colore ma accanto a lui, accompagnata da angeli, Maria con tutta la sua vivacità cromatica, si contrappone al grigiore terreno. Semplicemente geniale ma purtroppo casi singoli; non casi isolati, ma costantemente presenti nella sua maestria, nel Tiziano.
Qui l’«Assunta» (1518), la grande Assunzione in cielo di Maria, il Tiziano la dipinse da quarantenne: in alto, luce dorata al tramonto; sopra, Maria con Dio Padre che si rivolge a Lei dall’invisibile, attorniata dagli scomposti apostoli; in alto, si conclude in un cerchio infinito la danza degli angeli che hanno sollevato Maria cui ella ora appartiene, in basso, gli uomini incapaci di comprenderne il miracolo. Questa l’immagine al primo sguardo. Ma, oltre ciò, appare un’altra realtà supportata dal colore, il baratro tra alto e basso si riduce unendo le masse inferiori con quelle superiori. Il manto rosso di Maria testimonia il fervore del suo animo, l’esortazione che la sospinge in alto, ma il manto azzurro attenua ed ammorbidisce questa forza dell’animo, lo stesso accordo dei due sentimenti vengono espressi dai suoi tratti: non sconfinata beatitudine, ma felice speranza, la fiducia su quanto l’aspetta, seppur sconosciuto e pertanto volge lo sguardo interrogativo verso Dio, una certa timidezza e riservatezza nelle sua braccia semiallargate, semiretratte, ma pur sempre pronte a prendere possesso del cielo.
E gli Apostoli! Davanti a sinistra (nel quadro), sobbalzato dall’ entusiasmo dall’evento divino, le braccia verso l’alto, quasi volesse seguire la trasfigurata: il rapimento dell’azione, l’uomo vestito di rosso come Maria – ma pensa di esser un tutt’uno con lei. E sulla destra, poco dietro, un altro, in azzurro come Maria, e azzurro, come quello di lei, il suo mantello. Non si sospinge in avanti, c’è più e profonda concordanza, e la mano, avvicinata al petto senza toccarlo, il pieno sguardo del capo levato, parlano di uno stato d’animo che collega l’al di là con l’al di qua. Non più volere, tendere o cercare: piena sintonia con la forza miracolosa che si ü rivelata, la calma e commossa della partecipazione al santo evento . Questo non più essere che Giovanni, il giovane prediletto affidato alle cure di Maria. Ed accanto a lui, quale contrasto! Cercando, dubitando, quasi curioso, il vecchio ricorre con lo sguardo la scomparsa, il suo chiaro bianco ed cupo verde del mantello raffreddano lo spettatore al grado del suo sentire.
Accanto la linguaggio cromatico, ammutolisce quello degli altrettanto drammatici personaggi, la testa meravigliata alla sinistra, le mani potentemente unite in ammirazione sulla destra che sembrano dire: «Signore, ti credo, aiuta la mia incredulità»
Questa psicologia del colore, astutamente soggettiva? Ma risulta e si impone spontaneamente quale risultato della buona volontà dell’osservatore a rendersi ricettivo ad un’opera d’arte ed è sufficiente, dopo ripetuta visione, a far convivere la vitalità spirituale del quadro. Ma, forse, il Tiziano manco ci ha pensato ed ha impostato i colori di primo acchito e rinnegato, sorpreso, questa spiegazione. Potrebbe esserlo, ma chi lo può dimostrare? E finalmente: un artista non deve necessariamente rendersi conto astrattamente e secondo i protocolli cosa immette nella sua opera d’arte: per lui il messaggio è l’espressione di qualche cosa a lui inusitato. Goethe stesso si meravigliò della interpretazione data dall’animo dei contemporanei ai versi del suo «Prometheus»; pertanto non può essere successa identica cosa al Tiziano? In verità, un’opera d’arte cresce con l’osservatore, si completa con i suoi sentimenti, sempre rinnovati, con precedenza a quelli più profondi.
In effetti, il Tiziano sapeva quello che voleva, altrimenti non avrebbe impiegato i mezzi in modo così esplicito come lo fece nel pomposo «Presentazione di Maria al Tempio» (1540); quanto nell’«Assunta» era ancora lirico, qui diventa drammatico. Lo sguardo, almeno sull’originale nella sua postazione, non cade dapprima sul personaggio principale del dipinto. Sì, se si dovesse dimezzare l’immagine intera, alla destra si avrebbe la rappresentazione tradizionale alla Carpaccio e Maria ne sarebbe il centro; ma il Tiziano non voleva, come dalla sua natura, rappresentare una leggenda meravigliosa, ma ben sì il suo effetto sugli spettatori. Lo fa, spostando il baricentro della presentazione, che vuole non religiosa ma socio-psicologica. L’immagine giallo-sabbia di un personaggio, di per sé insignificante, costringe l’occhio al centro dell’immagine, allo sfondo azzurro del paesaggio, visibile tra i fiancheggianti palazzi, rendendo questo giallo dominante. Ma che succede? A sinistra (nell’immagine) salgono i, gradini si una scalinata grigia ed involontariamente lo sguardo vi è condotto con un sentiero a zig-zag, sospinto dal gesto di una mano. Finalmente incontriamo sul primo ripiano della scalinata, la piccola Maria nel suo vestitino azzurro chiaro, e come la vediamo, un chiaro alone la circonda, lucente: viviamo tutto il miracolo che vorrebbe essere rappresentato, dal Tiziano presentato non come un episodio del passato, ma grazie alla sua maestria, ma contemporaneo. L’inenarrabile diventa quell’avvenimento. Come nello spirito l’osservatore, Maria sale la scala e, improvvisamente, illuminandosi, si presenta il miracoloso destino cui era stata prescelta. Questo è quanto il visitatore della domenica percepisce; altrimenti questa presentazione gli sarebbe stata indifferente, ma così lo cattura quale avvenimento insospettato. Il grande sacerdote ha uno sguardo sorpreso, il suo diacono ancora indeciso, sul come giudicare l’avvenimento.
In basso, la donna in caldo rosso ha vivamente capito, lo indica gridando agli astanti. Curiosi si sporgono da ogni finestra e porta, la vecchia guarda meravigliata sentendo il mormorio, due fazioni si erano subitamente formate. Le donne, i bambini credono a quanto vedono nei loro vestiti azzurri e gialli che risuonano con l’azzurro e oro di Maria, gli uomini invece, in nero e sobriamente, ne discutono. Un unico, illuminato di rosso, duro e vistoso, si oppone sia alla meraviglia degli uni che ai dubbi degli altri; ai suoi compagni, che rende edotti e che gli chiedono che ne pensi, risponde con sapere e dimostra con chiari gesti l’impossibilità scientifica di quanto sta accadendo. In questo modo si intrecciano nei dettagli le linee e la creazione dei colori immediatamente d’atmosferico lirismo ed anche d’effetto drammatico e psicologico: questo è colorismo nella sua sublime espressione, cui non può render grazie che l’originale. Impotente ogni tentativo, anche il migliore, di riproduzione e se la pittura non ne trova vantaggio, questo è particolarmente vero per il Tiziano.
Capita per opere storiche di grande respiro, l’arte del colore del Tiziano ne assume uno analogo anche per più tranquille opere di carattere votivo, altrettanto profondo significato, di incommensurabile ed essenziale apparenza.
Questo è il caso de «Pala Pesaro» (1526): un libero panno bianco attorno al chiaro viso di Maria ed il corpo luminoso del bambino Gesù; obbliga esteriorizzandola, alla intima connessione dei due rendendoli, quale gruppo madre con bambino, il centro del dipinto, sublimi sopra il gruppo scuro ai loro piedi. Pur potendo essere considerato che un effetto di luce, il colore porta ad una gradazione e strutturazione. Dapprima, il corpo nudo del bambino risalta sull’azzurro mantello della madre che non è inanimato verso di lui, la rossa gonna parla subito di un caloroso sentimento, il più alto bianco si appoggia su di un chiaro e calmo colore. Questo rosso azzurrognolo si rinforza verso il basso, dove vi si appoggia Pietro, con un giallo azzurrognolo il cui forte effetto è moderato dalle ombre dei vestiti che portano lo sguardo sull’altrimenti risaltanti ed umiliante nero del vescovo di Paphos, a Jacopo Pesaro. Lo sguardo, capovolgendosi, risale improvvisamente dall’uomo, in profonda ombra e sua gloriosa magnificenza, alla figura sacra nella sua gioiosa moderazione, che troneggia dall’alto. Questa è la linea coloristica ed ideale diagonale del dipinto, che, da geniale direttiva, conduce con altrettanto finezza, alle linee secondarie. Sopra il modesto vescovo, un vittorioso guerriero, l’armatura è sì altrettanto nera, ma quale un fiero squillo di fanfara, si frappone sopra di loro il giallo della bandiera.Quasi lo stesso colore presente nel panno che ricopre Pietro, e qualche cosa di prepotente li sovrasta: al servizio di una chiesa combattente per il credo cattolico, il cui generale era demandato dal Papa Alessandro VI. Al vescovo, non avrebbe potuto meglio e più degnamente essere rappresentato in questo gruppo di tre persone. Altrettanto risultato coloristicamente l’angolo in cui sono inginocchiati, nell’angolo di destra, il restante della famiglia Pesaro: il nero del prete passa senza continuità nel rosso del senatore, da solo, risalire al rosso del manto dei Maria, a simboleggiare, per l’osservatore, i sentimenti che si innalzano dal senatore alla madre di Dio. Nuovamente, lo sguardo verrebbe condotto verso il basso, dal bruno scuro della cotta, anche se San Francesco non indicasse con la mano il trio, per il quale egli prega con sommesse parole il bambino Gesù che lo guarda con aria quasi birichina; infantile, chiara, spensierata disinvoltura nel bel mezzo di una seria cerimonia sfoggia pure il ragazzino nel suo vestito giallo: qui la vita non vi ha ancora lasciato grevi tracce.
Indubbiamente non così elaborato, ma sicuramente condotto da un sicuro istinto, l’opera giovanile del Tiziano, «San Marco in trono» (1504). Sulla sinistra san Rocco in bruno scuro, e quasi da gemello, uscente dall’ombra, si incurva il corpo di san Sebastiano. Quasi arte di conduzione della luce, ma sulla destra, in un rosso fuoco, c’è Damiano rischiarato dal pesante broccato d’oro di Cosma; da questi, un azzurro al collare conduce al blu del mantello che poggia sulle ginocchia di Marco – nella camicia il colore ritorna in un rosso blu, una rilassata tranquillità di una forza pronta all’azione.
Nell’ultima pittura del Tiziano, la «Pietà», Maria è vestita di uno scuro e sordo blu, la sua gonna rossa scompare, e come irrigidita, in un unico sentimento, la sua anima; di un unico colore vestita, Maddalena, il cui dolore, di cui fa parte il mondo, potrebbe render il rosso come adeguato: ma il Tiziano la veste in verde scuro, in quanto, malgrado la forte gestualità, non è posseduta da una passione che sarebbe in grado di far partecipare tutti, non un’azione forte e concreta, ma qui si innalza che un grido quasi di dolore corporeo. Giuseppe di Arimatea, sulla destra, è in rosso; c’è molto più forza decisiva in lui, nella sua gestualità calma ed ascoltante, che nell’agitazione di Maddalena che, con il suo verde, più si rivolge alla sfera femminile della di azzurro vestita Maria.
Non allegoria e nemmeno arzigogolamenti, vedere nei colori del Tiziano (ed in altri pittori) un vero e proprio linguaggio, analogamente a quello dei suoni nella musica1 è piuttosto una povera rinuncia della elaborazione di un’opera d’arte, come spesso accade, il voler parlare dei «soliti» e «convenzionali» blu e rosso dei vestiti. Certamente, questi erano vastamente diffusi nel quindicesimo e sedicesimo secolo e vestire di Christo e Maria rispettivamente di blu e rosso ma la maggior parte dei pittori vi associavano una particolare ambientazione di sentimenti; seppur legata ad una «scuola», «convenzione» e «tradizione», questa usanza non era puramente esteriore ma connessa intimamente e gli imitatori, quand’anche non ne sentissero l’intimità, sono pochi e trascurabili. Questo vale in particolare per il «rosso» dei veneti. Introdotto da Giorgione, anche se in un senso particolare, i suoi utilizzatori successivi sono che suoi successori a certe condizioni. Anche precedentemente al Giorgione, a Venezia vigeva il rosso, ma il suo genio gli assegnò un significato prima sconosciuto; Tiziano, Tintoretto, Paolo Veronese persino Paris Bordone e Bonifazio Veronese hanno dato risalto al rosso in quanto, come in Giorgione, vi hanno trovato un particolare stato d’animo.
Se l’uomo adirato vede rosso, se il toro ed il tacchino ne vengono stimolati, se il malinconico può essere sollevato da luci di quel colore, ciò dimostra la sua profonda azione biologica e spirituale quale colore del sangue: il sangue ne viene maggiormente influenzato dai suoi raggi, come lo è altrettanto il metabolismo. Comprensibilmente i veneti, prima di altri, lo preferirono in quanto richiamava in loro un senso di compiacimento e di vicinanza: calore sensuale, vivo desiderio, forza viva. Così, ne vestirono le onorificenze, ne ricoprirono le strade, ne vivacizzarono i muri e per chi guarda Venezia dall’alto di una torre, scorge ai suoi piedi il mare di tetti rossi – «Venise la rouge» così Alfred de Musset. Inoltre, il sole tramontante sulle tremolanti acque, spesso – quanto! oscurato da una cupa nube, fa sì che i canali raccolgano assieme uno scuro azzurro, un giallo dorato ed un misterioso rosso vino come nel «Marco» del Tiziano.
Dopo secoli di rigidi colori dell’arte antica, non possono aver fatto brillare gli occhi di tanti maestri pittori veneziani? Un’atmosfera pressoché serale campeggia sulla maggioranza dei loro dipinti, una certa maturità, non ancora ma quasi da chiamarsi stanchezza; la cena di Venezia stava volgendo al termine ed i suoi ospiti sensibili non l’hanno forse percepito riproducendone un’atmosfera rilassata e piena di presentimenti? Quanto, dopo un terzo di millennio, vien recepito dagli osservatori, e proprio grazie ai colori, sarebbe entrato nelle opere che per puro caso?
1) La vita spirituale superiore essendo associata al linguaggio orale, ha portato di conseguenza a nascondere sotto un velo il fatto che anche linee e colori sono debitrici di una logica che si relaziona segretamente alla logica linguistica orale a sua volta utilizzata ad esprimere giudizi e conclusioni